Il futuro della natura umana (Einaudi, 2002) raccoglie tre saggi di
Jürgen Habermas (
Astensione giustificata,
I rischi di una genetica liberale, Fede e sapere) e un
Postscritto, unificati da una comune
critica a certi impieghi della
genetica: una critica condotta con un armamentario spesso e niente affatto banale, che tira in mezzo Kant, Kierkegaard e il concetto stesso di comunità morale.
In sintesi, Habermas sostiene che la genetica, spostando il confine tra
il caso e la libera scelta, alteri la struttura stessa della nostra
esperienza morale, ossia incida sui presupposti del giudizio e dell'agire morale. La possibilità di considerarci autori responsabili della nostra storia e di rispettarci a vicenda come persone eguali per nascita e valore dipenderebbe, infatti, anche dall'
etica del genere, dal modo in cui ci intendiamo sul piano antropologico come "esseri di genere" (cfr. p. 31).
Secondo Habermas una genetica liberale comprometterebbe proprio la nostra
autocomprensione etica del genere: "quella autocomprensione da cui dipende la possibilità di continuare a intenderci come gli autori indivisi della nostra storia di vita, nonchè di continuare a
riconoscerci mutuamente come persone che agiscono in maniera autonoma" (p. 28). L'individuo geneticamente programmato viene
strumentalizzato (trattato come mezzo e non come fine), fatto oggetto di decisioni dipendenti da preferenze altrui, che non presuppongono (neppure un via controfattuale) il suo
consenso, la sua possibilità di dare risposta e prendere posizione.
Il fatto di sapersi programmato geneticamente da un altro soggetto, comprometterebbe la
capacità di autocomprensione dell'individuo, ridurrebbe gli spazio creativi della sua autonomia, gli impedirebbe di considerarsi l'
autore indiviso della propria storia di vita. "Nelle vicessitudini della nostra vita, noi possiamo ribadire il nostro 'essere noi stessi' solo quando possiamo stabilire una differenza tra ciò che noi siamo e ciò che a noi accade [...] Un indisponibile '
destino di natura' che anteceda, per così dire, il nostro stesso passato biografico sembra essere un elemento essenziale alla
coscienza della nostra libertà" (p. 61) e al nostro poter-essere-sé-stessi.
Non solo, ma un simile intervento di programmazione genetica verrebbe a creare un'
asimmetria nelle relazioni tra generazioni, tra programmati e programmatori, che distruggerebbe la
normale reciprocità di soggetti eguali (cfr. p. 65), così alteraldo quei reciproci rapporti di riconoscimento che caratterizzano la nostra comunità di persone morale (cfr. p. 66).
In sintesi, una genetica liberale ci impedirebbe di pensarci come persone che si concepiscono come gli autori indivisi della loro vita e come persone eguali a tutte le altre per nascita e valore:
due presupposti fondamentali della nostra autocomprensione morale come esseri di genere (cfr. p. 73).
Le tesi di Habermas si espongono a numerose
critiche.
In primo luogo, non è affatto chiaro perché mai la "
naturalità" del nostro patrimonio genetico - il fatto che questo sia (
in parte)
frutto del caso (ma solo in parte, visto che dipende dal patrimonio genetico dei nostri genitori) sia un elemento determinante della nostra autocomprensione come esseri dello
stesso genere, che meritano di, che devono, trattarsi reciprocamente come uguali. In fin dei conti anche l'individuo geneticamente programmato appartiene alla
nostra specie - potrei dire: ha il nostro stesso numero di cromosomi, ma anche tale dato non è rilevante, in quanto noi trattiamo come appartenenti alla nostra comunità morale anche soggetti che hanno un cromosoma soprannumerario (le persone affette dalla sindrome di down). Perché il fatto che un essere umano sia stato trattato una volta come oggetto, come mezzo (e non come fine), sia pure in un momento fondativo della sua esistenza, dovrebbe far venire meno i
doveri (normativi) morali nei suoi confronti? Perché ciò dovrebbe impedirci di considerarlo eguale a noi?
Tanto più che lo stesso Habermas sostiene che l'individuo non si identifichi solo nel suo DNA: "
L'individualizzazione biografica si compie tramite socializzazione" (p. 37).
In secondo luogo, la tesi secondo cui il soggetto che si scopre geneticamente modificato non sarebbe in grado di appropriarsi criticamente del proprio passato, di considerarsi l'autore indiviso della propria storia di vita, è una
tesi psicologica che, per quanto verosimile, non risulta scientificamente fondata. Come è stato fatto notare da Birnbacher, perchè un soggetto dovrebbe retrospettivamente rifiutare un
ampiamento delle sue risorse e una quantità maggiore di beni genetici primari (capacità di ordine generale, come forza fisica, intelligenza e memoria)? Insomma, perchè dovrebbe essere vissuto come alienante il fatto di essere sani, fisicamente e intellettualmente dotati? Secondo Habermas "In contesti biografici diversi, nemmeno il bene estremamente generico di un corpo sano conserva sempre lo stesso valore. I genitori non potranno mai sapere quando
un lieve difetto fisico del bambino non finisca per rivelarsi una sorta di vantaggio" (p. 86). Ma che dire di un difetto fisico non lieve?
E qui arriviamo al vero nodo problematico delle tesi di Habermas: l'individuazione del suo
bersaglio polemico.
Habermas si scaglia innanzitutto contro la
genetica liberale: la prassi che rimette alla
discrezionalità dei genitori l'intervento sul genoma degli ovuli fecondati (p. 80). Anche se il termine 'intervento' è ambiguo (ricomprende anche la selezione o include solo la manipolazione?), si può ritenere che l'espressione abbracci la c.d.
genetica da supermercato: la possibilità che i genitori si programmino un
figlio su misura. Intendiamoci: questa è una prassi che, allo stato attuale della scienza, è impossibile - e forse lo sarà sempre, visto che caratteristiche fondamentali dell'individuo, come il carattere o l'intelligenza, dipendono in misura determinante dall'interazione con l'ambiente. In ogni caso la condanna di una simile prassi può essere accettata anche da chi non condivida gli argomenti di Habermas.
Il problema è che Habermas mantiene un
atteggiamente ambiguo anche nei confronti di quella che lui chiama
eugenetica negativa, ossia
un'eugenetica
terapeutica (mirante alla cura) e
clinica (che presupponga il consenso, almeno controfattuale, del paziente).
Habermas sembra in linea di principio favorevole a una simile prassi, senonché non ne delinea con precisione i confini. L'eugenetica terapeutica e clinica sembrerebbe abbracciare innanzitutto gli interventi a scopi terapeutici su cellule somatiche (o comunque non germinali) di pazienti adulti e consenzienti - ma è dubbio se abbracci anche il mancato impianto di embrioni portatori di
gravi malattie genetiche. Se, da un lato, Habermas, appellandosi alla possibilità di un
consenso controfattuale, sembra ammettere la liceità morale di tale pratica, dall'altro, egli ritiene che essa attuerebbe una
discriminazione unilaterale e irreversibile (tra ciò che merita di vivere e ciò che non lo merita). Anche le critiche di Habermas alla diagnosi pre-impianto vanno nel senso di un divieto morale di impedire la nascita di soggetti portatori di gravi malattie.
Secondo Habermas la
diagnosi pre-impianto è una prassi differente rispetto all'
aborto: mentre nell'aborto si attua un bilanciamento di valori tra il diritto di autodeterminazione della donna e la tutela dell'embrione, nel caso della diagnosi pre-impianto si assiste ad un concepimento sottoposto a condizione, ad una
strumentalizzazione della vita umana rispetto alle preferenze dei genitori (p. 33).
Evidentemente Habermas sta pensando solo all'aborto dovuto ad una
gravidanza indesiderata: ma che dire del c.d.
aborto terapeutico? L'attuale possibilità di ricorrere a
tecniche di diagnosi prenatale (quali la trasnucenza nucale, il duo-test, il tri-test, la villocentesi e l'amniocentesi) fanno sì che
il concepimento sia sempre sottoposto a condizione: sempre i genitori possono scegliere di non far nascere un figlio malato. Gli argomenti di Habermas, se coerentemente sviluppati, dovrebbero portare anche al divieto di tali tecniche. Insomma
la donna potrebbe decidere di interrompere la gravidanza di un figlio sano, ma non di interrompere la gravidanza di un figlio malato (essendogli impedito di accertare tale malattia).
A ben vedere
l'unica differenza rilevante tra un aborto terapeutico e un mancato impianto, che emerge dai saggi di Habermas (cfr. p. 23), è che nel caso della diagnosi pre-impianto si ha a disposizione
più di un embrione potenzialmente soprannumerario, sicché i genitori non sono costretti a decidere secondo un codice binario sì/no, ma possono scegliere quali embrioni impiantare in base alle loro preferenze soggettive. Ma non basterebbe allora proibire discriminazioni tra embrioni fondate su criteri futili (sesso, colore degli occhi, ecc.) , limitando la diagnosi pre-impianto all'
accertamento di malattie e deformazioni genetiche, come già oggi accade con l'amniocentesi?