mercoledì 19 marzo 2008

Ingrao, Volevo la luna

Era allora intervenuto mio padre a sollecitarmi promettendo in cambio qualsiasi regalo io volessi [...]
Era una dolce sera d'estate e dal balcone aperto avevo dinanzi il monte Appiolo su cui si levava, lenta e maestosa, una luna d'argento. Io subito dissi:
- Voglio la luna...






Volevo la luna (Einaudi, 2006, 2007) è il racconto autobiografico dell'avventua umana e politica di Pietro Ingrao (nato nel 1915), dall'infanzia a Lenola fino al 1979 (l'anno successivo all'omicidio di Moro), attraverso alcuni tra gli anni più travagliati della storia recente.

In questo libro Ingrao non risolve alcun mistero d'Italia, non svela retroscena misteriosi, e neppure si dedica ad analisi particolarmente illuminanti delle vicende italiane - ma, piuttosto, si limita a raccontare le sue esperienze personali e le sue passioni politiche.
Ingrao (deputato, direttore dell'Unità, presidente della Camera dei deputati) fu soprattutto un uomo di partito ed anche le sue memorie sono incentrate prevalentemente intorno alle vicende del PCI - dalla presidenza Togliatti al compromesso storico di Berlinguer, attraverso i rapporti, sempre più travagliati, con Mosca, e, soprattutto, con la figura di Stalin, le alterne relazioni con le forze cattoliche, i grandi scioperi dell'autunno caldo e l'emergere di nuove soggettività locali.

L'autobiografia, si sa, non è mai un genere facile - meno che mai quando la vita in questione è quella di un protagonista del mondo politico ed occorre tentare un delicato equilibrio tra esperienze personali ed eventi storici. Un equilibrio che, in questo caso, non mi sembra pienamente raggiunto: alla fine, si ha l'impressione di non aver approfondito nè le une nè gli altri- di non conoscere l'uomo Ingrao e di non aver imparato nulla di nuovo sulle recenti vicende italiane.



Ingrao, Volevo la luna

Era allora intervenuto mio padre a sollecitarmi promettendo in cambio qualsiasi regalo io volessi [...]
Era una dolce sera d'estate e dal balcone aperto avevo dinanzi il monte Appiolo su cui si levava, lenta e maestosa, una luna d'argento. Io subito dissi:
- Voglio la luna...






Volevo la luna (Einaudi, 2006, 2007) è il racconto autobiografico dell'avventua umana e politica di Pietro Ingrao (nato nel 1915), dall'infanzia a Lenola fino al 1979 (l'anno successivo all'omicidio di Moro), attraverso alcuni tra gli anni più travagliati della storia recente.

In questo libro Ingrao non risolve alcun mistero d'Italia, non svela retroscena misteriosi, e neppure si dedica ad analisi particolarmente illuminanti delle vicende italiane - ma, piuttosto, si limita a raccontare le sue esperienze personali e le sue passioni politiche.
Ingrao (deputato, direttore dell'Unità, presidente della Camera dei deputati) fu soprattutto un uomo di partito ed anche le sue memorie sono incentrate prevalentemente intorno alle vicende del PCI - dalla presidenza Togliatti al compromesso storico di Berlinguer, attraverso i rapporti, sempre più travagliati, con Mosca, e, soprattutto, con la figura di Stalin, le alterne relazioni con le forze cattoliche, i grandi scioperi dell'autunno caldo e l'emergere di nuove soggettività locali.

L'autobiografia, si sa, non è mai un genere facile - meno che mai quando la vita in questione è quella di un protagonista del mondo politico ed occorre tentare un delicato equilibrio tra esperienze personali ed eventi storici. Un equilibrio che, in questo caso, non mi sembra pienamente raggiunto: alla fine, si ha l'impressione di non aver approfondito nè le une nè gli altri- di non conoscere l'uomo Ingrao e di non aver imparato nulla di nuovo sulle recenti vicende italiane.



sabato 15 marzo 2008

Marconi, Per la verità



Per la verità. Relativismo e filosofia
(Einaudi, 2007) di Diego Marconi è un libricino scorrevole, chiaro e ben scritto che si legge piacevolmente in un pomeriggio. Marconi riesce bene nella difficile impresa di coniugare brevità, chiarezza espositiva e profondità d'analisi - e certo non sono molti i testi filosofici in versione "tascabile" e divulgativa di cui si possa dire altrettanto.

Il capitolo primo è dedicato ad un'esame di concetti di 'verità', 'giustificazione', 'certezza', 'conoscenza' e 'credenza giustificata' e si risolve, sostanzialmente, in una difesa convincente e ben argomentata della teoria della verità come corrispondenza, che mostra non solo come tale teoria rispecchi il nostro uso della parola 'vero', ma anche come le teorie alternative si fondino o su confusioni concettuali o su drammatizzazioni irrealistiche ed esasperate (così assurde che potrebbero venire in mente solo ad un filosofo).
Certo Marconi omette qualche virgoletta nell'esposizione della convenzione-T (di Tarski) e non analizza i problemi legati alla sua applicabilità alle lingue naturali, ma ciò è pienamente giustificato dagli scopi divulgativi - altrimenti ben difficilmente questo libro si leggerebbe in un pomeriggio!

Il capitolo secondo analizza alcune posizioni relativistiche rispetto alla verità e, in particolare, il relativismo epistemologico e il relativismo concettuale.
Il relativismo epistemologico consiste essenzialmente nella tesi secondo cui "non ci sono modi di giustificare un criterio di verità che siano indipendenti dal criterio che pretendono di giustificare" (p. 52) o, in altri termini, nell'idea che ogni procedura adottata per provare la superiorità di un sistema di giustificazioni (un esperimento, una ragione, ecc.) è circolare e presuppone necessariamanente (ossia, concettualmente) il sistema che vorrebbe giustificare. Pertanto non ci sono meta-criteri per decidere tra criteri di giustificazione concorrenti.
Al riguardo, Marconi ritiene che tale posizione sia perfettamente ragionevole e praticabile - un giudizio che, personalmente, condivido in pieno.

Convincente è anche la posizione di Marconi rispetto al relativismo concettuale: a suo giudizio tale tesi è accettabile se, e solo se, la si interpreta nel senso che uno schema concettuale "non determina come stanno le cose, ma che tipi di cose ci sono e come possono stare" (p. 62). In altri termini, non ha senso ritenere che una e una stessa proposizione possa essere vera in (e per) uno schema concettuale e falsa in (e per) un altro schema concorrente: piuttosto l'accessibilità di una proposizione dipende dallo schema concettuale adottato.
Per riprendere un esempio di Marconi, la proposizione 'Il sale è cloruro di sodio' di certo non era vera per i Greci dell'età omerica: ciò però non significa che fosse falsa (nè che essi la ritenessero tale). I greci semplicemente non possedevano il concetto di 'cloruro di sodio', sicché non avevano accesso a tale proposizione. Tuttavia anche all'epoca dei Greci una simile proposizione era vera (anche se essi non lo sapevano).
Ovviamente si potrebbe replicare che il cloruro di sodio non è un'essenza del mondo, che l'uomo si limiti a scoprire: tale termine ha senso solo all'interno dell'apparato concettuale della chimica moderna. Tuttavia, se si impiega tale apparato, è vero che 'Il sale è cloruro di sodio'. Certo, si potrebbe impiegare anche un apparato differente: ad esempio, un apparato in cui quello che noi chiamiamo 'cloruro di sodio' si chiami 'solfato di potassio' e viceversa. Rispetto ad un simile apparato sarebbe falso che 'Il sale è cloruro di sodio'. Tuttavia non credo che si sia alcun bisogno del post-modernismo per rendere conto di questo fatto: la natura convenzionale del linguaggio è più che sufficiente.

Il terzo capitolo, dedicato alla critica del relatismo morale, è, forse, quello che desta più perplessità.
Intendiamoci, le critiche di Marconi sono quasi (anche se non) tutte convincenti: il problema, però, è che non è affatto chiaro se dalla fondatezza di tali critiche, dall'inaccettabilità di certi tipi di relativismo etico, Marconi intenda dimostrare la plausibilità dell'oggetivismo morale. In altri termini, è dubbia quale sia la posizione dell'autore rispetto al problema relativo all'esistenza di verità morali.

Per come la vedo io, non è possibile avere alcuna conoscenza morale e lo stesso concetto di verità morale è un nonsenso: ciò per la banale ragione che non esistono fatti morali. Il problema non è che non conosciamo tali fatti, come, ad esempio, non conosciamo il numero esatto dei pianeti dell'Universo, bensì che non esistono, che non sono fatti (chi ha mai visto o mai vedrà un principio morale oggettivo?). Se la verità è una relazione di corrispondenza tra il linguaggio e i fatti e la conoscenza è (almeno) un credenza vera (corrispondente ai fatti) e giustificata, allora la verità e la conoscenza morali sono impossibili per definizione.
Del resto le affermazioni morali non sono, per lo più, descrizioni, bensì giudizi di valore: istanze del linguaggio prescrittivo, che non sono nè vere nè false, che non dicono che qualcosa è, bensì che qualcosa deve essere.

Il fatto che in morale e in etica non si diano verità, non significa però che i giudizi di valore siano equiparabili a preferenze individuali, a gusti determinati causalmente dalla storia personale o addirittura dalla costituzione fisica di ognuno di noi. Al contrario, come a tratti lo stesso Marconi pare ammettere, tali giudizi possono e devono essere giustificati (suffragati da buone ragioni): proprio l'esigenza di un'argomentazione razionale rende possibile e fruttuoso il confronto tra posizioni morali distinte.
I valori non sono fatti e non sono veri: ciò però non significa che stiano tutti sullo stesso piano. Alcuni giudizi di valore sono bene argomentati, altri non lo sono affatto o sono palesente in contrasto con altri valori appartenenti al medesimo sistema e al medesimo individuo.

Proprio per tale ragione il relativismo dei cento fiori, ossia la posizione secondo cui è bene che ci siano molte opzioni politico-morali tra cui scegliere, contrariamente a quanto sostiene Marconi (p. 95), può essere suffragato anche da argomenti positivi: la presenza di un continuo confronto tra sistemi di valore diversi, rende più probabile che prevalgano quelli più argomentati e, per contro, vengano abbandonati quelli contraddittori e non giustificati.
Certo, perchè ciò accada non è sufficiente che in una società siano presenti valori distinti, ma occorre anche che tra i sostenitori di tali valori si instauri un dialogo razionale.
Infine, proprio perchè non esistono fatti morali è ben possibile che tra due sistemi etici non possa darsi alcun dialogo, alcun confronto critico: ciò accade tipicamente quando tali sistemi si fondano su due valori totalmente incompatibili (ad es. il valore dell'eguaglianza e il valore del razzismo). In ogni caso, credo che una simile evenienza non sia poi così frequente e comunque essa non preclude affatto ogni possibilità di confronto: resta infatti sempre possibile la critica interna, quella che mira a dimostrare come un dato sistema sia incoerente o inconsistente

Marconi, Per la verità



Per la verità. Relativismo e filosofia
(Einaudi, 2007) di Diego Marconi è un libricino scorrevole, chiaro e ben scritto che si legge piacevolmente in un pomeriggio. Marconi riesce bene nella difficile impresa di coniugare brevità, chiarezza espositiva e profondità d'analisi - e certo non sono molti i testi filosofici in versione "tascabile" e divulgativa di cui si possa dire altrettanto.

Il capitolo primo è dedicato ad un'esame di concetti di 'verità', 'giustificazione', 'certezza', 'conoscenza' e 'credenza giustificata' e si risolve, sostanzialmente, in una difesa convincente e ben argomentata della teoria della verità come corrispondenza, che mostra non solo come tale teoria rispecchi il nostro uso della parola 'vero', ma anche come le teorie alternative si fondino o su confusioni concettuali o su drammatizzazioni irrealistiche ed esasperate (così assurde che potrebbero venire in mente solo ad un filosofo).
Certo Marconi omette qualche virgoletta nell'esposizione della convenzione-T (di Tarski) e non analizza i problemi legati alla sua applicabilità alle lingue naturali, ma ciò è pienamente giustificato dagli scopi divulgativi - altrimenti ben difficilmente questo libro si leggerebbe in un pomeriggio!

Il capitolo secondo analizza alcune posizioni relativistiche rispetto alla verità e, in particolare, il relativismo epistemologico e il relativismo concettuale.
Il relativismo epistemologico consiste essenzialmente nella tesi secondo cui "non ci sono modi di giustificare un criterio di verità che siano indipendenti dal criterio che pretendono di giustificare" (p. 52) o, in altri termini, nell'idea che ogni procedura adottata per provare la superiorità di un sistema di giustificazioni (un esperimento, una ragione, ecc.) è circolare e presuppone necessariamanente (ossia, concettualmente) il sistema che vorrebbe giustificare. Pertanto non ci sono meta-criteri per decidere tra criteri di giustificazione concorrenti.
Al riguardo, Marconi ritiene che tale posizione sia perfettamente ragionevole e praticabile - un giudizio che, personalmente, condivido in pieno.

Convincente è anche la posizione di Marconi rispetto al relativismo concettuale: a suo giudizio tale tesi è accettabile se, e solo se, la si interpreta nel senso che uno schema concettuale "non determina come stanno le cose, ma che tipi di cose ci sono e come possono stare" (p. 62). In altri termini, non ha senso ritenere che una e una stessa proposizione possa essere vera in (e per) uno schema concettuale e falsa in (e per) un altro schema concorrente: piuttosto l'accessibilità di una proposizione dipende dallo schema concettuale adottato.
Per riprendere un esempio di Marconi, la proposizione 'Il sale è cloruro di sodio' di certo non era vera per i Greci dell'età omerica: ciò però non significa che fosse falsa (nè che essi la ritenessero tale). I greci semplicemente non possedevano il concetto di 'cloruro di sodio', sicché non avevano accesso a tale proposizione. Tuttavia anche all'epoca dei Greci una simile proposizione era vera (anche se essi non lo sapevano).
Ovviamente si potrebbe replicare che il cloruro di sodio non è un'essenza del mondo, che l'uomo si limiti a scoprire: tale termine ha senso solo all'interno dell'apparato concettuale della chimica moderna. Tuttavia, se si impiega tale apparato, è vero che 'Il sale è cloruro di sodio'. Certo, si potrebbe impiegare anche un apparato differente: ad esempio, un apparato in cui quello che noi chiamiamo 'cloruro di sodio' si chiami 'solfato di potassio' e viceversa. Rispetto ad un simile apparato sarebbe falso che 'Il sale è cloruro di sodio'. Tuttavia non credo che si sia alcun bisogno del post-modernismo per rendere conto di questo fatto: la natura convenzionale del linguaggio è più che sufficiente.

Il terzo capitolo, dedicato alla critica del relatismo morale, è, forse, quello che desta più perplessità.
Intendiamoci, le critiche di Marconi sono quasi (anche se non) tutte convincenti: il problema, però, è che non è affatto chiaro se dalla fondatezza di tali critiche, dall'inaccettabilità di certi tipi di relativismo etico, Marconi intenda dimostrare la plausibilità dell'oggetivismo morale. In altri termini, è dubbia quale sia la posizione dell'autore rispetto al problema relativo all'esistenza di verità morali.

Per come la vedo io, non è possibile avere alcuna conoscenza morale e lo stesso concetto di verità morale è un nonsenso: ciò per la banale ragione che non esistono fatti morali. Il problema non è che non conosciamo tali fatti, come, ad esempio, non conosciamo il numero esatto dei pianeti dell'Universo, bensì che non esistono, che non sono fatti (chi ha mai visto o mai vedrà un principio morale oggettivo?). Se la verità è una relazione di corrispondenza tra il linguaggio e i fatti e la conoscenza è (almeno) un credenza vera (corrispondente ai fatti) e giustificata, allora la verità e la conoscenza morali sono impossibili per definizione.
Del resto le affermazioni morali non sono, per lo più, descrizioni, bensì giudizi di valore: istanze del linguaggio prescrittivo, che non sono nè vere nè false, che non dicono che qualcosa è, bensì che qualcosa deve essere.

Il fatto che in morale e in etica non si diano verità, non significa però che i giudizi di valore siano equiparabili a preferenze individuali, a gusti determinati causalmente dalla storia personale o addirittura dalla costituzione fisica di ognuno di noi. Al contrario, come a tratti lo stesso Marconi pare ammettere, tali giudizi possono e devono essere giustificati (suffragati da buone ragioni): proprio l'esigenza di un'argomentazione razionale rende possibile e fruttuoso il confronto tra posizioni morali distinte.
I valori non sono fatti e non sono veri: ciò però non significa che stiano tutti sullo stesso piano. Alcuni giudizi di valore sono bene argomentati, altri non lo sono affatto o sono palesente in contrasto con altri valori appartenenti al medesimo sistema e al medesimo individuo.

Proprio per tale ragione il relativismo dei cento fiori, ossia la posizione secondo cui è bene che ci siano molte opzioni politico-morali tra cui scegliere, contrariamente a quanto sostiene Marconi (p. 95), può essere suffragato anche da argomenti positivi: la presenza di un continuo confronto tra sistemi di valore diversi, rende più probabile che prevalgano quelli più argomentati e, per contro, vengano abbandonati quelli contraddittori e non giustificati.
Certo, perchè ciò accada non è sufficiente che in una società siano presenti valori distinti, ma occorre anche che tra i sostenitori di tali valori si instauri un dialogo razionale.
Infine, proprio perchè non esistono fatti morali è ben possibile che tra due sistemi etici non possa darsi alcun dialogo, alcun confronto critico: ciò accade tipicamente quando tali sistemi si fondano su due valori totalmente incompatibili (ad es. il valore dell'eguaglianza e il valore del razzismo). In ogni caso, credo che una simile evenienza non sia poi così frequente e comunque essa non preclude affatto ogni possibilità di confronto: resta infatti sempre possibile la critica interna, quella che mira a dimostrare come un dato sistema sia incoerente o inconsistente

sabato 8 marzo 2008

Grice e la teoria delle implicature conversazionali

Lavori in corso....





Si considerino i seguenti dialoghi:

(1) A: Sai che ore sono?
B: È già iniziato il TG regionale

(2) A: Sai dov’è finito il pollo?
B: Mah, il gatto si sta leccando i baffi

Ciò che vi è di sorprendente nei dialoghi sopra riportati è che essi sembrano perfettamente comprensibili: eppure, in entrambi i casi, la risposta di B, presa alla lettera, parrebbe totalmente slegata, non cooperativa, rispetto alla domanda di A.
Il punto, però, è che, in genere, noi non interpretiamo in modo letterale la risposta di B, o, meglio, interpretiamo la risposta letterale di B come se fosse adeguata (cooperativa) rispetto alla domanda di A.

Al riguardo Grice suggerisce che la conversazione sia governata da una serie di massime, le quali sono dirette a garantire un uso efficace ed efficiente della lingua a fini di interazione.
In estrema sintesi, ciò che viene detto è interpretato, ove possibile, come conforme alle massime in questione (almeno ad un certo livello): per mantenere tale assunto di conformità vengono spesso compiute delle inferenze esterne al contenuto letterale delle frasi enunciate, dette ‘implicature conversazionali’.

In altri termini, tutto ciò che diciamo viene interpretato, nei limiti del possibile, in chiave cooperativa, come risposta appropriata al contesto comunicativo: per far questo, però, i nostri interlocutori devono spesso andare oltre il significato convenzionale di ciò che è detto, devono interpretare quello che diciamo in chiave cooperativa, ossia, appunto, come se fosse conforme (almeno ad un certo livello) alle massime conversazionali.

Così nel caso (1) la risposta di B può ritenersi adeguata alla domanda di A in quanto, in tale contesto, l’asserzione ‘È già iniziato il TG regionale’ comunica ‘Non so l’ora esatta in questo momento, ma posso darti un’informazione dalla quale credo che tu possa dedurre approssimativamente l’ora , e cioè È già iniziato il TG regionale’.
Analogamente, nel contesto delineato dal caso (2) la risposta di B può essere intesa come cooperativa in quanto può intendersi come ‘Non so dove sia finito il pollo, ma credo che l’abbia mangiato il gatto, visto che il gatto si sta leccando i baffi’.
Le implicature pertanto sono fondate sia sul contenuto di ciò che è detto sia sulle massime di cooperazione (le quali, a loro volta, sono spesso sensibili al contesto).

La teoria di Grice mi pare costituire un potente strumento di comprensione delle nostre interazioni comunicative quotidiane: mi piacerebbe tentare di riformulare le massine conversazionali in modo da applicarle al discorso normativo (concetto la cui caratterizzazione mi sta succhiando litri di sangue e lacrime) e sondare la possibilità di un loro impiego in ambito giuridico.

Si accettano suggerimenti - e per chiunque fosse interessato ecco la bibliografia provvisoria

Grice e la teoria delle implicature conversazionali

Lavori in corso....





Si considerino i seguenti dialoghi:

(1) A: Sai che ore sono?
B: È già iniziato il TG regionale

(2) A: Sai dov’è finito il pollo?
B: Mah, il gatto si sta leccando i baffi

Ciò che vi è di sorprendente nei dialoghi sopra riportati è che essi sembrano perfettamente comprensibili: eppure, in entrambi i casi, la risposta di B, presa alla lettera, parrebbe totalmente slegata, non cooperativa, rispetto alla domanda di A.
Il punto, però, è che, in genere, noi non interpretiamo in modo letterale la risposta di B, o, meglio, interpretiamo la risposta letterale di B come se fosse adeguata (cooperativa) rispetto alla domanda di A.

Al riguardo Grice suggerisce che la conversazione sia governata da una serie di massime, le quali sono dirette a garantire un uso efficace ed efficiente della lingua a fini di interazione.
In estrema sintesi, ciò che viene detto è interpretato, ove possibile, come conforme alle massime in questione (almeno ad un certo livello): per mantenere tale assunto di conformità vengono spesso compiute delle inferenze esterne al contenuto letterale delle frasi enunciate, dette ‘implicature conversazionali’.

In altri termini, tutto ciò che diciamo viene interpretato, nei limiti del possibile, in chiave cooperativa, come risposta appropriata al contesto comunicativo: per far questo, però, i nostri interlocutori devono spesso andare oltre il significato convenzionale di ciò che è detto, devono interpretare quello che diciamo in chiave cooperativa, ossia, appunto, come se fosse conforme (almeno ad un certo livello) alle massime conversazionali.

Così nel caso (1) la risposta di B può ritenersi adeguata alla domanda di A in quanto, in tale contesto, l’asserzione ‘È già iniziato il TG regionale’ comunica ‘Non so l’ora esatta in questo momento, ma posso darti un’informazione dalla quale credo che tu possa dedurre approssimativamente l’ora , e cioè È già iniziato il TG regionale’.
Analogamente, nel contesto delineato dal caso (2) la risposta di B può essere intesa come cooperativa in quanto può intendersi come ‘Non so dove sia finito il pollo, ma credo che l’abbia mangiato il gatto, visto che il gatto si sta leccando i baffi’.
Le implicature pertanto sono fondate sia sul contenuto di ciò che è detto sia sulle massime di cooperazione (le quali, a loro volta, sono spesso sensibili al contesto).

La teoria di Grice mi pare costituire un potente strumento di comprensione delle nostre interazioni comunicative quotidiane: mi piacerebbe tentare di riformulare le massine conversazionali in modo da applicarle al discorso normativo (concetto la cui caratterizzazione mi sta succhiando litri di sangue e lacrime) e sondare la possibilità di un loro impiego in ambito giuridico.

Si accettano suggerimenti - e per chiunque fosse interessato ecco la bibliografia provvisoria

lunedì 3 marzo 2008

Wallace, Verso occidente l'impero dirige il suo corso

"La metafiction è come una coppia di innamorati che non fanno l'amore.
Che baciano ciscuno la propria spina dorsale.
Che si scopano da soli
"





In questo romanzo di David Foster Wallace non succede praticamente nulla: al limite è successo o succederà qualcosa - come apprendiamo da qualche personaggio o, più spesso, dalla voce dell'onnipresente narratore che interviene costantemente ad interrompere la vicenda, non solo per fornirci particolari o retroscena, ma anche e più spesso per improvvisare discussioni letterarie, relative ad esempio al neorealismo, alla metafiction, e alla necessità di un loro superamento. Cosa che potrà essere anche interessante per uno studente di letteratura americana all'ultimo anno, ma è mortalmente soporifera per il lettore delle 21.30.

Del resto Verso occidente l'impero dirige il suo corso si presenta esplicitamente come un esercizio di stile: una sorta di cover del racconto Lost in the Funhouse di John Barth (fuori commercio nella traduzione italiana).
Da Barth Wallace prende non solo alcuni personaggi - Madga e Ambrose (che incarnano, entrambi, lo stesso Barth) ma anche e soprattutto lo stile: le continue interruzioni del narratore a commento della sua stessa narrazione.

Ma se Barth aveva l'attenuante dell'originalità, Wallace non ha proprio scuse per questo racconto da corso di scrittura creativa (lo stesso cui partecipano due dei suoi personaggi), saccente e compiaciuto, tutto all'insegna del "Guarda mamma, senza mani!" - e il fatto che ne sia perfettamente consapevole costituisce semmai un'aggravante.

Insomma, questo romanzo di Wallace mi ha proprio deluso: ben diversamente da Una cosa divertente che non farò mai più che, invece, mi ha entusiasmato (e ucciso dalle risate)

Wallace, Verso occidente l'impero dirige il suo corso

"La metafiction è come una coppia di innamorati che non fanno l'amore.
Che baciano ciscuno la propria spina dorsale.
Che si scopano da soli
"





In questo romanzo di David Foster Wallace non succede praticamente nulla: al limite è successo o succederà qualcosa - come apprendiamo da qualche personaggio o, più spesso, dalla voce dell'onnipresente narratore che interviene costantemente ad interrompere la vicenda, non solo per fornirci particolari o retroscena, ma anche e più spesso per improvvisare discussioni letterarie, relative ad esempio al neorealismo, alla metafiction, e alla necessità di un loro superamento. Cosa che potrà essere anche interessante per uno studente di letteratura americana all'ultimo anno, ma è mortalmente soporifera per il lettore delle 21.30.

Del resto Verso occidente l'impero dirige il suo corso si presenta esplicitamente come un esercizio di stile: una sorta di cover del racconto Lost in the Funhouse di John Barth (fuori commercio nella traduzione italiana).
Da Barth Wallace prende non solo alcuni personaggi - Madga e Ambrose (che incarnano, entrambi, lo stesso Barth) ma anche e soprattutto lo stile: le continue interruzioni del narratore a commento della sua stessa narrazione.

Ma se Barth aveva l'attenuante dell'originalità, Wallace non ha proprio scuse per questo racconto da corso di scrittura creativa (lo stesso cui partecipano due dei suoi personaggi), saccente e compiaciuto, tutto all'insegna del "Guarda mamma, senza mani!" - e il fatto che ne sia perfettamente consapevole costituisce semmai un'aggravante.

Insomma, questo romanzo di Wallace mi ha proprio deluso: ben diversamente da Una cosa divertente che non farò mai più che, invece, mi ha entusiasmato (e ucciso dalle risate)