mercoledì 23 gennaio 2008

Roth, Pastorale americana

"Come avrebbe potuto sapere, con tutta la sua bontà così accuratamente calibrata, che il prezzo di una vita obbediente era tanto alto? Ci si rassegna all'obbedienza per abbassare il prezzo"




Nathan Zuckerman (protagonista di altri romanzi di Roth e suo alter ego letterario), scrittore settantenne, cui la vita ha lasciato solo ricordi, reincontra l'idolo della sua adolescenza: Seymor Levov, detto 'lo Svedese' per il fisico alto e biondo, il migliore atleta del loro liceo, giocatore di basket, football e baseball, l'idolo di un intero quartiere. Questa è la sua storia.

'Pastorale' designa un poema di ambientazione agreste, dove la vita bucolica viene per lo più presentata in chiave idilliaca. Questo è il contrario, il rovesciamento di una pastorale.

Lo svedese appartiene a una famiglia di immigrati ebrei (suo nonno non parlava nemmeno inglese) che, col sudore della fronte e il duro lavoro, è riuscita ad arricchirsi nel settore dell'industria guantaria. Lo svedese è sempre stato un ragazzo modello: ligio al dovere, marine provetto, abbandona una promettente carriera sportiva per entrare nella fabbrica paterna e, come suo padre, ama il suo lavoro, è gentile coi propri operai e si dedica con solerzia all'incremento del patrimonio familiare. Lo svedese è esattamente quello che sembra: un uomo tranquillo e tollerante, preoccupato di non offendere mai nessuno, un'anima semplice che sogna una casa di pietra nel verde con una moglie in cucina e una figlia sull'altalena.

E i suoi sogni lo Svedese li avvera: perchè non dovrebbe? Lo Svedese è perfetto (o almeno così se lo immagina Nathan Zuckerman), lo Svedese è buono e gentile, lo Svedese è il sogno americano. Ma il sogno di Seymor Levov, il sogno che Seymor Levov è, si tramuta presto in una tragedia (se non in una farsa) a causa dell'amatissima figlia Merry - la sua famiglia si sgretola, le sue certezze controllano in una crisi soggettiva senza uscita che lo costringe a mettere in discussione il suo passato e la sua identità senza offrire alcuna prospettiva alternativa.

Pastorale americana di Philip Roth mi è piaciuto - la scrittura è intensa, anche se a tratti un pò faticosa, i personaggi e le situazioni sono credibili e ben delineati - eppure non mi ha entusiasmato. Spesso, si sa, i libri ci coinvolgono di più o di meno a seconda del periodo in cui li leggiamo, a seconda della nostra contingente situazione emotiva. Credo, però, che ci siano anche delle ragioni per il mio mancato entusiasmo.

Innanzitutto questo romanzo non mi è parso affatto, come invece ha scritto qualcuno, un affresco della società americana degli anni '60-'70. E' vero che la figura dello Svedese e, ancor più, quella meno stereotipata di suo padre incarnano una serie di valori e aspirazioni tipici di una certa società americana, ma è vero anche che le vicende politiche di quegli anni non giocano alcun ruolo effettivo nella dinamica del romanzo. In particolare, allo Svedese del Vietnam non importa nulla, così come non gli importa nulla di tutto ciò che non lo riguarda personalmente e il suo crollo è causato da un fatto privato, del tutto accidentale: sua figlia è pazza - come egli stesso alla fine dovrà ammettere, rinunciando definitivamente a trovare un senso nell'intera vicenda.

In Vietnam l'America ha perso la sua innocenza in un senso ben più radicale di quello di veder trasformare un pugno di ragazzine di buona famiglia in terroriste fanatiche. Ma questo è l'unico aspetto che emerge dal romanzo di Roth - un romanzo in cui le uniche persone interessate alla politica vengono presentate o come psicotiche sanguinarie (vedi Merry e Rita Cohen) o come pseudo-intellettuali sadiche (vedi Marcia Umanoff).

Cosa c'era di male nel sogno dello Svedese? Ci chiede Roth-Zuckerman. Nulla, ma è un sogno solipsistico, oltre che individualista, un sogno che può anche andar bene per chi, come Zuckerman o lo Svedese, decida di isolarsi dal resto del mondo, ma che è destinato a naufragare nel momento in cui lo scontro con la società diventi inevitabile. E soprattutto è un sogno che non mi piacerebbe sognare.



Su Roth cfr. anche la recensione al bellissimo Everyman

Roth, Pastorale americana

"Come avrebbe potuto sapere, con tutta la sua bontà così accuratamente calibrata, che il prezzo di una vita obbediente era tanto alto? Ci si rassegna all'obbedienza per abbassare il prezzo"




Nathan Zuckerman (protagonista di altri romanzi di Roth e suo alter ego letterario), scrittore settantenne, cui la vita ha lasciato solo ricordi, reincontra l'idolo della sua adolescenza: Seymor Levov, detto 'lo Svedese' per il fisico alto e biondo, il migliore atleta del loro liceo, giocatore di basket, football e baseball, l'idolo di un intero quartiere. Questa è la sua storia.

'Pastorale' designa un poema di ambientazione agreste, dove la vita bucolica viene per lo più presentata in chiave idilliaca. Questo è il contrario, il rovesciamento di una pastorale.

Lo svedese appartiene a una famiglia di immigrati ebrei (suo nonno non parlava nemmeno inglese) che, col sudore della fronte e il duro lavoro, è riuscita ad arricchirsi nel settore dell'industria guantaria. Lo svedese è sempre stato un ragazzo modello: ligio al dovere, marine provetto, abbandona una promettente carriera sportiva per entrare nella fabbrica paterna e, come suo padre, ama il suo lavoro, è gentile coi propri operai e si dedica con solerzia all'incremento del patrimonio familiare. Lo svedese è esattamente quello che sembra: un uomo tranquillo e tollerante, preoccupato di non offendere mai nessuno, un'anima semplice che sogna una casa di pietra nel verde con una moglie in cucina e una figlia sull'altalena.

E i suoi sogni lo Svedese li avvera: perchè non dovrebbe? Lo Svedese è perfetto (o almeno così se lo immagina Nathan Zuckerman), lo Svedese è buono e gentile, lo Svedese è il sogno americano. Ma il sogno di Seymor Levov, il sogno che Seymor Levov è, si tramuta presto in una tragedia (se non in una farsa) a causa dell'amatissima figlia Merry - la sua famiglia si sgretola, le sue certezze controllano in una crisi soggettiva senza uscita che lo costringe a mettere in discussione il suo passato e la sua identità senza offrire alcuna prospettiva alternativa.

Pastorale americana di Philip Roth mi è piaciuto - la scrittura è intensa, anche se a tratti un pò faticosa, i personaggi e le situazioni sono credibili e ben delineati - eppure non mi ha entusiasmato. Spesso, si sa, i libri ci coinvolgono di più o di meno a seconda del periodo in cui li leggiamo, a seconda della nostra contingente situazione emotiva. Credo, però, che ci siano anche delle ragioni per il mio mancato entusiasmo.

Innanzitutto questo romanzo non mi è parso affatto, come invece ha scritto qualcuno, un affresco della società americana degli anni '60-'70. E' vero che la figura dello Svedese e, ancor più, quella meno stereotipata di suo padre incarnano una serie di valori e aspirazioni tipici di una certa società americana, ma è vero anche che le vicende politiche di quegli anni non giocano alcun ruolo effettivo nella dinamica del romanzo. In particolare, allo Svedese del Vietnam non importa nulla, così come non gli importa nulla di tutto ciò che non lo riguarda personalmente e il suo crollo è causato da un fatto privato, del tutto accidentale: sua figlia è pazza - come egli stesso alla fine dovrà ammettere, rinunciando definitivamente a trovare un senso nell'intera vicenda.

In Vietnam l'America ha perso la sua innocenza in un senso ben più radicale di quello di veder trasformare un pugno di ragazzine di buona famiglia in terroriste fanatiche. Ma questo è l'unico aspetto che emerge dal romanzo di Roth - un romanzo in cui le uniche persone interessate alla politica vengono presentate o come psicotiche sanguinarie (vedi Merry e Rita Cohen) o come pseudo-intellettuali sadiche (vedi Marcia Umanoff).

Cosa c'era di male nel sogno dello Svedese? Ci chiede Roth-Zuckerman. Nulla, ma è un sogno solipsistico, oltre che individualista, un sogno che può anche andar bene per chi, come Zuckerman o lo Svedese, decida di isolarsi dal resto del mondo, ma che è destinato a naufragare nel momento in cui lo scontro con la società diventi inevitabile. E soprattutto è un sogno che non mi piacerebbe sognare.



Su Roth cfr. anche la recensione al bellissimo Everyman

lunedì 21 gennaio 2008

Self Destruction

Qual è il fascino dell'autodistruzione - il contrario della salvezza, il contrario della tranquillità?
E' lo stesso fascino della morte, si dirà. Eppure no, eppure sembra sussistere una differenza fondamentale tra morire e autodistruggersi. La morte è certo l'esito del processo distruttivo, ma come è l'esito della vita in generale. Nessuno uscirà vivo di qui. La spinta all'autodistruzione spesso non è solo attrazione per la morte, ma anche e soprattutto ricerca della vita: non solo il tentativo di adattarsi ad una società spigolosa su cui non si riesce a scivolare, ma anche il desiderio di appartenere alla vita, cibandosene, inghiottendola tutta insieme, tutta di colpo.

E c'è qualcosa di antropologicamente interessante, di umano, troppo umano, nell'esistenza di quegli individui che sembrano aver tutto, che tengono il mondo in mano, ma invece di godersi serenità e successo, bruciano presente e futuro, in una sete che non si appaga mai, fino alla fine.
La felicità non è per loro, i loro demoni non li lasciano in pace.

Jim Morrison (1943-1971), l'idolo della mia adolescenza, il cantante dei Doors, il re Lucertola (dal verso di un suo poema, Celebrazione della lucertola), emblema dei belli e dannati: morto a Parigi, nella sua vasca da bagno a soli 27 anni - in Wonderland Avenue, Danny Sugerman riporta la testimonianza di Pamela Courson secondo la quale il decesso sarebbe stato causato da overdose di eroina, ma sul cadavere non fu eseguita nessuna autopsia. The end of nights we tried to die. Ma anche la fine di una vita spinta al limite, nel tentativo di vedere oltre le porte.
La sua vita ispirò il film di Olive Stone, The Doors.



Kurt Cobain (1967-1994), chitarrista e cantante dei Nirvana, suicidatosi con un colpo di fucile quando era ancora all'apice del successo - appena un mese dopo il suo ricovero per overdose presso l'American Hospital di Roma. Accanto al suo corpo venne ritrovata una lettera diretta all'amico immaginario della sua infanzia, Boddah, in cui Cobain cita una canzone di Neil Young, My My, Hey Hey (Out of the Blue): "It's better to burn out than to fade away" (È meglio bruciare che spegnersi lentamente). Agli ultimi giorni di Cobain è ispirato il bel film di Gus Van Sant, Last Days.



Gia Marie Carangi (1960-1986), fotomodella omosessuale, ribelle e trasgressiva, rovinò la sua carriera a causa dell'eroina. Morì di AIDS in un'epoca in cui questa malattia era ancora poco nota. Alla sua vita è dedicato il film tv, Gia, del regista Michael Cristofer con Angelina Jolie.



Mike Tyson (1966), nato da una famiglia poverissima di Brooklyn, sembrò incarnare il sogno americano quando, dopo aver trascorso l'infanzia a entrare e uscire dai riformatori, il 22 novembre 1986 diventò il più giovane campione mondiale dei pesi massimi, vincendo il titolo WBC, cui seguì, nei 9 mesi successivi, la vittoria dei titoli WBA e IBF.
L'11 febbraio 1990, a Tokyo, venne pesantemente sconfitto da James "Buster" Douglas per KO alla decima ripresa. E' l'inizio della fine. Segue il processo e la condanna per stupro. Uscito dal carcere nel marzo del 1995, Tyson riprende gli allenamenti e riesce a riconquistare la cintura WBC e WBA, ma nel novembre 1996 viene sconfitto per KO tecnico all'undicesima ripresa da Holyfield. L'anno dopo si svolge il match di rivincita: Tyson viene squalificato per aver, nel corso del terzo round, quando si trovava in evidente difficoltà, morso e staccato un pezzo dell'orecchio dell'avversario. Seguono le sconfitte contro Lennon Lewis (per KO all'ottava ripresa), Danny Williams (KO alla quarta), Kevin McBride (ritiro alla sesta), i debiti, la dichiarazione di bancarotta, la condanna per possesso di sostanze stupefacenti e guida in stato di ebbrezza. Tyson è uscito dal ghetto, il ghetto non è mai uscito da Tyson.



Diego Armando Maradona (1960), El Diego, ritenuto da molti il più grande calciatore della storia, non ha certo bisogno di presentazioni. La sua caduta iniziò, dapprima, con la squalifica di un anno e mezzo nel 1991, dopo un controllo anti-doping al termine dell'incontro Napoli-Bari in cui risultò positivo alla cocaina, poi con la squalifica ai mondiali USA 1994 perchè positivo all'efedrina. Dopo il ritiro dall'attività agonistica continuò ad avere problemi di salute causati dall'obesità e dalla tossicodipendenza (che curò fin dagli anni '90), il 18 aprile 2004 subì anche un infarto causato da overdose di cocaina.
La sua autobiografia, Yo Soy El Diego (Io sono il Diego) pubblicata nel 2000, è diventata un bestseller internazionale. Memorabili le interviste con Gianni Minà.



River Phoenix (1970 - 1993), dopo un'infanzia povera, in cui con la sorella Rain suonava per strada al fine di racimolare qualche soldo per la famiglia, viene scoperto dal cinema statunitense e si afferma come uno dei giovani attori più promettenti della sua generazione. Tra i suoi film: Mosquito Coast di Peter Weir, Stand by me di Rob Reiner e Belli e dannati di Gus Van Sant, grazie al quale vince la Coppa Volpi al festival del cinema di Venezia. Affetto da tossicodipendenza, muore a soli 23 anni per overdose di eroina e cocaina.



Britney Spears (1981), non è certo tra le mie cantanti preferite, ma ho iniziato a guardarla in una nuova luce da quando le sue recenti vicende personale - gli arresti, i ricoveri in cliniche per la disintossicazione, la condizione in cui si è esibita agli mtv music awards - hanno messo in luce la fragilità di questa ragazza apparentemente nata per il palcoscenico (debuttò in tv ad 8 anni, nel programma Mickey Mouse Club di Disney Channel), l'angoscia che si cela sotto lustrini e parruccone bionde.


John Belushi, (1949-1982), reso celebre dallo show della NBC, Saturday Night Live, e da film indimenticabili come Animal House (1978) e il mitico The Blues Brothers (1980), entrambi del regista John Landis, alcolizzato e tossicodipendente, morì in una stanza dell'albergo "Chateau Marmont" (a Los Angeles) a seguito di uno speedball (un'iniezione di eroina e cocaina), dopo una notte di trasgressione cui parteciparano, tra gli altri, Robert De Niro, Jack Nicholson e Robin Williams.

Self Destruction

Qual è il fascino dell'autodistruzione - il contrario della salvezza, il contrario della tranquillità?
E' lo stesso fascino della morte, si dirà. Eppure no, eppure sembra sussistere una differenza fondamentale tra morire e autodistruggersi. La morte è certo l'esito del processo distruttivo, ma come è l'esito della vita in generale. Nessuno uscirà vivo di qui. La spinta all'autodistruzione spesso non è solo attrazione per la morte, ma anche e soprattutto ricerca della vita: non solo il tentativo di adattarsi ad una società spigolosa su cui non si riesce a scivolare, ma anche il desiderio di appartenere alla vita, cibandosene, inghiottendola tutta insieme, tutta di colpo.

E c'è qualcosa di antropologicamente interessante, di umano, troppo umano, nell'esistenza di quegli individui che sembrano aver tutto, che tengono il mondo in mano, ma invece di godersi serenità e successo, bruciano presente e futuro, in una sete che non si appaga mai, fino alla fine.
La felicità non è per loro, i loro demoni non li lasciano in pace.

Jim Morrison (1943-1971), l'idolo della mia adolescenza, il cantante dei Doors, il re Lucertola (dal verso di un suo poema, Celebrazione della lucertola), emblema dei belli e dannati: morto a Parigi, nella sua vasca da bagno a soli 27 anni - in Wonderland Avenue, Danny Sugerman riporta la testimonianza di Pamela Courson secondo la quale il decesso sarebbe stato causato da overdose di eroina, ma sul cadavere non fu eseguita nessuna autopsia. The end of nights we tried to die. Ma anche la fine di una vita spinta al limite, nel tentativo di vedere oltre le porte.
La sua vita ispirò il film di Olive Stone, The Doors.



Kurt Cobain (1967-1994), chitarrista e cantante dei Nirvana, suicidatosi con un colpo di fucile quando era ancora all'apice del successo - appena un mese dopo il suo ricovero per overdose presso l'American Hospital di Roma. Accanto al suo corpo venne ritrovata una lettera diretta all'amico immaginario della sua infanzia, Boddah, in cui Cobain cita una canzone di Neil Young, My My, Hey Hey (Out of the Blue): "It's better to burn out than to fade away" (È meglio bruciare che spegnersi lentamente). Agli ultimi giorni di Cobain è ispirato il bel film di Gus Van Sant, Last Days.



Gia Marie Carangi (1960-1986), fotomodella omosessuale, ribelle e trasgressiva, rovinò la sua carriera a causa dell'eroina. Morì di AIDS in un'epoca in cui questa malattia era ancora poco nota. Alla sua vita è dedicato il film tv, Gia, del regista Michael Cristofer con Angelina Jolie.



Mike Tyson (1966), nato da una famiglia poverissima di Brooklyn, sembrò incarnare il sogno americano quando, dopo aver trascorso l'infanzia a entrare e uscire dai riformatori, il 22 novembre 1986 diventò il più giovane campione mondiale dei pesi massimi, vincendo il titolo WBC, cui seguì, nei 9 mesi successivi, la vittoria dei titoli WBA e IBF.
L'11 febbraio 1990, a Tokyo, venne pesantemente sconfitto da James "Buster" Douglas per KO alla decima ripresa. E' l'inizio della fine. Segue il processo e la condanna per stupro. Uscito dal carcere nel marzo del 1995, Tyson riprende gli allenamenti e riesce a riconquistare la cintura WBC e WBA, ma nel novembre 1996 viene sconfitto per KO tecnico all'undicesima ripresa da Holyfield. L'anno dopo si svolge il match di rivincita: Tyson viene squalificato per aver, nel corso del terzo round, quando si trovava in evidente difficoltà, morso e staccato un pezzo dell'orecchio dell'avversario. Seguono le sconfitte contro Lennon Lewis (per KO all'ottava ripresa), Danny Williams (KO alla quarta), Kevin McBride (ritiro alla sesta), i debiti, la dichiarazione di bancarotta, la condanna per possesso di sostanze stupefacenti e guida in stato di ebbrezza. Tyson è uscito dal ghetto, il ghetto non è mai uscito da Tyson.



Diego Armando Maradona (1960), El Diego, ritenuto da molti il più grande calciatore della storia, non ha certo bisogno di presentazioni. La sua caduta iniziò, dapprima, con la squalifica di un anno e mezzo nel 1991, dopo un controllo anti-doping al termine dell'incontro Napoli-Bari in cui risultò positivo alla cocaina, poi con la squalifica ai mondiali USA 1994 perchè positivo all'efedrina. Dopo il ritiro dall'attività agonistica continuò ad avere problemi di salute causati dall'obesità e dalla tossicodipendenza (che curò fin dagli anni '90), il 18 aprile 2004 subì anche un infarto causato da overdose di cocaina.
La sua autobiografia, Yo Soy El Diego (Io sono il Diego) pubblicata nel 2000, è diventata un bestseller internazionale. Memorabili le interviste con Gianni Minà.



River Phoenix (1970 - 1993), dopo un'infanzia povera, in cui con la sorella Rain suonava per strada al fine di racimolare qualche soldo per la famiglia, viene scoperto dal cinema statunitense e si afferma come uno dei giovani attori più promettenti della sua generazione. Tra i suoi film: Mosquito Coast di Peter Weir, Stand by me di Rob Reiner e Belli e dannati di Gus Van Sant, grazie al quale vince la Coppa Volpi al festival del cinema di Venezia. Affetto da tossicodipendenza, muore a soli 23 anni per overdose di eroina e cocaina.



Britney Spears (1981), non è certo tra le mie cantanti preferite, ma ho iniziato a guardarla in una nuova luce da quando le sue recenti vicende personale - gli arresti, i ricoveri in cliniche per la disintossicazione, la condizione in cui si è esibita agli mtv music awards - hanno messo in luce la fragilità di questa ragazza apparentemente nata per il palcoscenico (debuttò in tv ad 8 anni, nel programma Mickey Mouse Club di Disney Channel), l'angoscia che si cela sotto lustrini e parruccone bionde.


John Belushi, (1949-1982), reso celebre dallo show della NBC, Saturday Night Live, e da film indimenticabili come Animal House (1978) e il mitico The Blues Brothers (1980), entrambi del regista John Landis, alcolizzato e tossicodipendente, morì in una stanza dell'albergo "Chateau Marmont" (a Los Angeles) a seguito di uno speedball (un'iniezione di eroina e cocaina), dopo una notte di trasgressione cui parteciparano, tra gli altri, Robert De Niro, Jack Nicholson e Robin Williams.

sabato 19 gennaio 2008

Strawson, Analysis and Metaphysics




Analysis and Metaphysics (1992) costituisce probabilmente uno dei capolavori della filosofia (non solo analitica): Strawson (1919-2006) ha la straordinaria e rarissima capacità di coniugare semplicità di esposizione e profondità di analisi.

In questo libro sono raccolte alcune delle lectures che Strawson tenne a Oxford tra il 1968, quando successe a Ryle sulla cattedra di Metafisica, fino al 1987, anno del suo ritiro dall'insegnamento per raggiunti limiti di età: in esse egli articola la sua concezione generale della filosofia come analisi concettuale, mostrandone le relazioni con le tradizioni discipline dell'ontologia, della logica e dell'epistemologia.

Secondo Strawson il lavoro del filosofo consiste nel «produce a systematic account of the general conceptual structure of which our daily pratice shows us to have a tacit and unconscious mastery» (p. 7). Al fine di elaborare una simile conoscenza teorica dei concetti che usiamo abitualmente, di esplicitare i principi che guidano la nostra pratica, Strawson ritiene che la strada più promettente consista nel rifiuto di ogni analisi riduzionista, a favore di un modello (denominato 'connective model', p. 21) che consista piuttosto nel chiarire (to elucidate) le relazioni tra i nostri concetti e lo spazio, il ruolo, che essi occupano all'interno del nostro complesso sistema, network, concettuale.

Ciò non significa rinunciare all'idea di concetti fondamentali: tali sono i concetti altamente generali, irriducibili (ma non per questo semplici) e non contingenti (essenziali, ai fini dell'intelleggibilità della nostra esperienza come esseri coscienti). L'oggetto primario dell'analisi deve consistere proprio nel tracciare le principali linee di connessione e interdipendenza che legano tali concetti all'interno della nostra generale struttura di pensiero.
Assumere come oggetto d'analisi il nostro modo di pensare non significa, però, trascurare la realtà, il mondo così come davvero è. Al contrario.

In primo luogo, per rispondere alla domanda su quali siano le categorie più generali nei cui termini organizziamo la nostra esperienza del mondo e come siano tra loro collegate, dobbiamo rispondere anche, incidentalmente, alla domanda su come concepiamo il mondo, su quale sia la nostra ontologia di base.
La questione ontologica è, poi, strettamente intrecciata con la logica: questa sembra rappresentare un buon modello per indagare la struttura generale del nostro pensiero, ma, in logica, non esistono retrizioni ai tipi di item che possono essere specificati da un nome o da un termine singolare definito all'interno di una proposizione semplice. L'ontologia deve, pertanto, intervenire per operare simili restrizioni, per riempire la struttura astratta della logica.
(Tra parentesi: il § 3, Moore and Quine, è altamente raccomandato a tutti coloro che, come me, sono sempre rimasti perplessi di fronte alla tesi di Quine secondo cui 'esistere' è essere il significato di una variabile vincolata).

In secondo luogo, «the very concepts in term of which we form our primitive or fundamental or least theoretical beliefs get their sense for us precisely as concepts which we should judge to apply in possibile experience situations» (pp. 52-3). Questa, per Straswon, è la tesi principale dell'empirismo: i nostri concetti sono vuoti, non giocano alcun ruolo conoscitivo, se non in relazione a una possibile esperienza. L'epistemologia, la teoria della conoscenza, assume pertanto un ruolo rilevante nell'analisi concettuale e l'esperienza costituisce sicuramente un'importante fonte di conoscenza.
La caratteristica principale della nostra esperienza consiste, a giudizio di Strawson, nell'essere un'esperienza in e di un mondo oggettivo spaziale e temporale: un'esperienza di oggetti individuali (particolari) distinti spazio-temporalmente. Proprio questi sono i fondamentali oggetti di riferimento e i fondamentali soggetti di predicazione.

Accettare la tesi principale dell'empirismo
non significa comunque accettarne l'intera dottrina: Strawson critica sia i tentativi delle dottrine empiriste di ridurre o derivare la struttura generale delle nostre idee da stati soggettivi concepiti come impressioni o immagini di qualità sensoriali semplici (§ 6, Classical Empiricism) sia, in particolare, la nota tesi di Hume sulla causalità (§ 9, Causation and Explanation). Al riguardo, Strawson, predilige piuttosto un'impostazione kantiana:
«the concept of causal efficacy is not derived from experience of a world of object, but is a presupposition of it; or, perhaps better, is already with us when anything which could be called ‘experience’ begins» (p. 124).
Ciò, conformemente alla tesi generale che riconosce una stretta compenetrazione tra i concetti che impieghiamo nei nostri giudizi percettivi e la nostra esperienza del mondo: i nostri concetti sono vuoti se non possiamo relazionarli, direttamente o indirettamente, con la nostra esperienza, con le condizioni per la loro applicazione; ma anche il carattere della nostra esperienza è permeato dai concetti impiegati nei nostri giudizi percettivi. «The concepts which are necessary for the experience description are precisely those which are necessary for the world description» (p. 63).

I saggi di cui ai §§ 7 (Truth and Knowledge) e 8 (Meaning and Understanding) sono dedicati a due tradizionali problemi della filosofia del linguaggio: la teoria della verità e il problema di spiegare l'illimitata capacità umana di apprendimento linguistico. Anche rispetto a tali temi, il metodo di Strawson si sostanzia nel partire dalle caratteristiche della nostra esperienza, che, come visto, sono anche le caratteristiche del nostro schema concettuale.

Infine nel § 10 (Freedon and Necessity), forse uno dei saggi più complessi tra quelli raccolti nel volume, Strawson tenta di dissolvere, piuttosto che risolvere, il problema del libero arbitrio: nonostante le molte considerazioni di buon senso, non so però fino a che punto un simile tentativo possa dirsi riuscito - al termine della lettura l'impressione è che il senso di libertà che sperimentiamo giornalmente e che, di certo, costituisce una delle caratteristiche distintive della nostra comprensione e autocomprensione, rimanga un'assunzione ingiustificata.




Strawson, Analysis and Metaphysics




Analysis and Metaphysics (1992) costituisce probabilmente uno dei capolavori della filosofia (non solo analitica): Strawson (1919-2006) ha la straordinaria e rarissima capacità di coniugare semplicità di esposizione e profondità di analisi.

In questo libro sono raccolte alcune delle lectures che Strawson tenne a Oxford tra il 1968, quando successe a Ryle sulla cattedra di Metafisica, fino al 1987, anno del suo ritiro dall'insegnamento per raggiunti limiti di età: in esse egli articola la sua concezione generale della filosofia come analisi concettuale, mostrandone le relazioni con le tradizioni discipline dell'ontologia, della logica e dell'epistemologia.

Secondo Strawson il lavoro del filosofo consiste nel «produce a systematic account of the general conceptual structure of which our daily pratice shows us to have a tacit and unconscious mastery» (p. 7). Al fine di elaborare una simile conoscenza teorica dei concetti che usiamo abitualmente, di esplicitare i principi che guidano la nostra pratica, Strawson ritiene che la strada più promettente consista nel rifiuto di ogni analisi riduzionista, a favore di un modello (denominato 'connective model', p. 21) che consista piuttosto nel chiarire (to elucidate) le relazioni tra i nostri concetti e lo spazio, il ruolo, che essi occupano all'interno del nostro complesso sistema, network, concettuale.

Ciò non significa rinunciare all'idea di concetti fondamentali: tali sono i concetti altamente generali, irriducibili (ma non per questo semplici) e non contingenti (essenziali, ai fini dell'intelleggibilità della nostra esperienza come esseri coscienti). L'oggetto primario dell'analisi deve consistere proprio nel tracciare le principali linee di connessione e interdipendenza che legano tali concetti all'interno della nostra generale struttura di pensiero.
Assumere come oggetto d'analisi il nostro modo di pensare non significa, però, trascurare la realtà, il mondo così come davvero è. Al contrario.

In primo luogo, per rispondere alla domanda su quali siano le categorie più generali nei cui termini organizziamo la nostra esperienza del mondo e come siano tra loro collegate, dobbiamo rispondere anche, incidentalmente, alla domanda su come concepiamo il mondo, su quale sia la nostra ontologia di base.
La questione ontologica è, poi, strettamente intrecciata con la logica: questa sembra rappresentare un buon modello per indagare la struttura generale del nostro pensiero, ma, in logica, non esistono retrizioni ai tipi di item che possono essere specificati da un nome o da un termine singolare definito all'interno di una proposizione semplice. L'ontologia deve, pertanto, intervenire per operare simili restrizioni, per riempire la struttura astratta della logica.
(Tra parentesi: il § 3, Moore and Quine, è altamente raccomandato a tutti coloro che, come me, sono sempre rimasti perplessi di fronte alla tesi di Quine secondo cui 'esistere' è essere il significato di una variabile vincolata).

In secondo luogo, «the very concepts in term of which we form our primitive or fundamental or least theoretical beliefs get their sense for us precisely as concepts which we should judge to apply in possibile experience situations» (pp. 52-3). Questa, per Straswon, è la tesi principale dell'empirismo: i nostri concetti sono vuoti, non giocano alcun ruolo conoscitivo, se non in relazione a una possibile esperienza. L'epistemologia, la teoria della conoscenza, assume pertanto un ruolo rilevante nell'analisi concettuale e l'esperienza costituisce sicuramente un'importante fonte di conoscenza.
La caratteristica principale della nostra esperienza consiste, a giudizio di Strawson, nell'essere un'esperienza in e di un mondo oggettivo spaziale e temporale: un'esperienza di oggetti individuali (particolari) distinti spazio-temporalmente. Proprio questi sono i fondamentali oggetti di riferimento e i fondamentali soggetti di predicazione.

Accettare la tesi principale dell'empirismo
non significa comunque accettarne l'intera dottrina: Strawson critica sia i tentativi delle dottrine empiriste di ridurre o derivare la struttura generale delle nostre idee da stati soggettivi concepiti come impressioni o immagini di qualità sensoriali semplici (§ 6, Classical Empiricism) sia, in particolare, la nota tesi di Hume sulla causalità (§ 9, Causation and Explanation). Al riguardo, Strawson, predilige piuttosto un'impostazione kantiana:
«the concept of causal efficacy is not derived from experience of a world of object, but is a presupposition of it; or, perhaps better, is already with us when anything which could be called ‘experience’ begins» (p. 124).
Ciò, conformemente alla tesi generale che riconosce una stretta compenetrazione tra i concetti che impieghiamo nei nostri giudizi percettivi e la nostra esperienza del mondo: i nostri concetti sono vuoti se non possiamo relazionarli, direttamente o indirettamente, con la nostra esperienza, con le condizioni per la loro applicazione; ma anche il carattere della nostra esperienza è permeato dai concetti impiegati nei nostri giudizi percettivi. «The concepts which are necessary for the experience description are precisely those which are necessary for the world description» (p. 63).

I saggi di cui ai §§ 7 (Truth and Knowledge) e 8 (Meaning and Understanding) sono dedicati a due tradizionali problemi della filosofia del linguaggio: la teoria della verità e il problema di spiegare l'illimitata capacità umana di apprendimento linguistico. Anche rispetto a tali temi, il metodo di Strawson si sostanzia nel partire dalle caratteristiche della nostra esperienza, che, come visto, sono anche le caratteristiche del nostro schema concettuale.

Infine nel § 10 (Freedon and Necessity), forse uno dei saggi più complessi tra quelli raccolti nel volume, Strawson tenta di dissolvere, piuttosto che risolvere, il problema del libero arbitrio: nonostante le molte considerazioni di buon senso, non so però fino a che punto un simile tentativo possa dirsi riuscito - al termine della lettura l'impressione è che il senso di libertà che sperimentiamo giornalmente e che, di certo, costituisce una delle caratteristiche distintive della nostra comprensione e autocomprensione, rimanga un'assunzione ingiustificata.




domenica 6 gennaio 2008

contro il doppiaggio



Basta, non ne posso più!

Sarebbe ora che tutti gli appassionati di cinema iniziassero incessantemente a lamentarsi e a creare un serio movimento di opinione contro la pessima abitudine italiana di doppiare i film stranieri (o, per lo meno, certi film).

Per rendersi conto di quanto sia ridicolo, di quanto possa rovinare un film, è sufficiente guardare un'opera italiana (o anche inglese) doppiata in un'altra lingua straniera (ad esempio in spagnolo): raccapricciante! Mi vengono ancora i brividi al ricordo di Marcello Mastroianni doppiato in castigliano in La dolce vita o di Julia Roberts che parla catalano in My best friend's wedding.

Come minimo il doppiaggio distorce la recitazione, rendendo il pubblico incapace di valutare appieno le prestazioni degli attori. E spesso i suoi effetti sono ancora più deleteri.
Due esempi eclatanti.

Babel di Alejandro González Iñárritu. Qui il titolo "parla" da solo: Babel, cioè una babele di culture, di punti di vista, ma anche di lingue (inglese, arabo, spagnolo e giapponese). Una varietà e una confusione di idiomi che, nella versione nostrana, sono andate completamente distrutte, ridicolizzate da doppiatori italiani che tentavano confusamente di scimmiottare l'accento arabo o spagnolo (in quest'ultimo caso mi è sembrato addirittura che lo si facesse con una cadenza veneta).

Il recente Ai confini del Paradiso (Yaşamın Kıyısında) di Fatih Akin: una storia ambientata tra Germania e Turchia, con immigrati turchi di prima e seconda generazione che parlano più o meno agevolmente tedesco e turco. Anche in questo caso l'eterogeneità e le difficoltà linguistiche, che costituiscono una parte integrante della trama, sono completamente perse nel doppiaggio italiano - ma, per lo meno, i doppiatori non si sono cimentati in ardue imitazioni dell'accento turco.
Peraltro il concetto di 'Paradiso' non ha nulla a che fare con la storia così come non ha nulla a che fare con il titolo che, in lingua originale, significa Dall'altra parte. Del resto storpiare i titoli di Fatih Akin è ormai un'abitudine: basti pensare che Gegen die Wand, ossia Contro il muro, è stato distribuito in Italia col titolo La sposa turca!
Ricordo, all'uscita del cinema, un signore un pò perplesso "Mi aspettavo tutt'altro genere di film - diceva - credevo fosse una commediola"

O, ancora, Philip Seymour Hoffman ha studiato a fondo il peculiare modo di parlare di Truman Capote per la sua interpretazione in Truman Capote - In cold blood - uno sforzo artistico che gli spettatori italiani non hanno certo potuto apprezzare.

E ancora: pare che Angelina Jolie per sostenere il ruolo di Mariane Pearl in A mighty Heart, abbia studiato per mesi l'accento della giornatista francese - la doppiatrice, invece, ogni tanto l'accento lo esaspera e ogni tanto se ne dimentica del tutto.

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ancora, ancora e ancora.

A favore del doppiaggio si sostiene spesso che la distribuzione in lingua originale diminuirebbe sensibilmente i profitti cinematografici, che la maggioranza del pubblico non andrebbe mai a vedere un film non doppiato. Ma forse in Francia si va meno al cinema che in Italia? No, anzi, è vero il contrario.

Certo, le prime volte leggere i sottotitoli può risultare faticoso: ma poi ci si abitua. Senza parlare del fatto che la visione di film in lingua originale potrebbe aiutare a supplire ai noti problemi di noi italiani nel maneggiare gli idiomi stranieri.
Nulla poi vieta un doppio circuito di distribuzione: sia in lingua originale sia con doppiaggio.

Ma ciò richiederebbe uno sforzo che le case distributrici italiane (notoriamente miopi ed inefficienti) non sembrano disposte a compiere e lederebbe gli interessi della lobby dei doppiatori professionisti.





contro il doppiaggio



Basta, non ne posso più!

Sarebbe ora che tutti gli appassionati di cinema iniziassero incessantemente a lamentarsi e a creare un serio movimento di opinione contro la pessima abitudine italiana di doppiare i film stranieri (o, per lo meno, certi film).

Per rendersi conto di quanto sia ridicolo, di quanto possa rovinare un film, è sufficiente guardare un'opera italiana (o anche inglese) doppiata in un'altra lingua straniera (ad esempio in spagnolo): raccapricciante! Mi vengono ancora i brividi al ricordo di Marcello Mastroianni doppiato in castigliano in La dolce vita o di Julia Roberts che parla catalano in My best friend's wedding.

Come minimo il doppiaggio distorce la recitazione, rendendo il pubblico incapace di valutare appieno le prestazioni degli attori. E spesso i suoi effetti sono ancora più deleteri.
Due esempi eclatanti.

Babel di Alejandro González Iñárritu. Qui il titolo "parla" da solo: Babel, cioè una babele di culture, di punti di vista, ma anche di lingue (inglese, arabo, spagnolo e giapponese). Una varietà e una confusione di idiomi che, nella versione nostrana, sono andate completamente distrutte, ridicolizzate da doppiatori italiani che tentavano confusamente di scimmiottare l'accento arabo o spagnolo (in quest'ultimo caso mi è sembrato addirittura che lo si facesse con una cadenza veneta).

Il recente Ai confini del Paradiso (Yaşamın Kıyısında) di Fatih Akin: una storia ambientata tra Germania e Turchia, con immigrati turchi di prima e seconda generazione che parlano più o meno agevolmente tedesco e turco. Anche in questo caso l'eterogeneità e le difficoltà linguistiche, che costituiscono una parte integrante della trama, sono completamente perse nel doppiaggio italiano - ma, per lo meno, i doppiatori non si sono cimentati in ardue imitazioni dell'accento turco.
Peraltro il concetto di 'Paradiso' non ha nulla a che fare con la storia così come non ha nulla a che fare con il titolo che, in lingua originale, significa Dall'altra parte. Del resto storpiare i titoli di Fatih Akin è ormai un'abitudine: basti pensare che Gegen die Wand, ossia Contro il muro, è stato distribuito in Italia col titolo La sposa turca!
Ricordo, all'uscita del cinema, un signore un pò perplesso "Mi aspettavo tutt'altro genere di film - diceva - credevo fosse una commediola"

O, ancora, Philip Seymour Hoffman ha studiato a fondo il peculiare modo di parlare di Truman Capote per la sua interpretazione in Truman Capote - In cold blood - uno sforzo artistico che gli spettatori italiani non hanno certo potuto apprezzare.

E ancora: pare che Angelina Jolie per sostenere il ruolo di Mariane Pearl in A mighty Heart, abbia studiato per mesi l'accento della giornatista francese - la doppiatrice, invece, ogni tanto l'accento lo esaspera e ogni tanto se ne dimentica del tutto.

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ancora, ancora e ancora.

A favore del doppiaggio si sostiene spesso che la distribuzione in lingua originale diminuirebbe sensibilmente i profitti cinematografici, che la maggioranza del pubblico non andrebbe mai a vedere un film non doppiato. Ma forse in Francia si va meno al cinema che in Italia? No, anzi, è vero il contrario.

Certo, le prime volte leggere i sottotitoli può risultare faticoso: ma poi ci si abitua. Senza parlare del fatto che la visione di film in lingua originale potrebbe aiutare a supplire ai noti problemi di noi italiani nel maneggiare gli idiomi stranieri.
Nulla poi vieta un doppio circuito di distribuzione: sia in lingua originale sia con doppiaggio.

Ma ciò richiederebbe uno sforzo che le case distributrici italiane (notoriamente miopi ed inefficienti) non sembrano disposte a compiere e lederebbe gli interessi della lobby dei doppiatori professionisti.





giovedì 3 gennaio 2008

libro d'oro ossia il più bel libro letto nel 2007


Tutti gli anni il mio amico Matteo Z. assegna il libro d'oro, ossia stabilisce qual'è il libro più bello che ha letto quell'anno.
Dal momento che ne ho sempre tratto degli utilissimi consigli per la lettura, ho deciso di pubblicare il suo commento al libro d'oro di quest'anno, seguito dall'albo d'oro, ossia dalla classifica generale dal 1992 ad oggi.

Buona lettura a tutti!

Prima di annunciare il vincitore un ricordo per Ryszard Kapuscinski straordinario giornalista e scrittore polacco scomparso nel 2007. I suoi libri sull' Africa (Ebano ha vinto l'edizione 2000 di questo premio), sulle Repubbliche Sovietiche, sull'Iran sono dei capolavori di giornalismo vero e vissuto. Consiglio a tutti In viaggio con Erodoto che ho letto quest'anno e che e' un vero e proprio manifesto del suo modo di intendere la vita e la professione di giornalista.

Il mio oscar al miglior libro letto nel 2007 va a Infedele di Ayaan Hirsi Ali.
E' un'autobiografia di straordinaria potenza e crudeltà ma anche di grande intelligenza in cui l'autrice narra il viaggio della sua vita dalla Somalia natia all'Olanda, in cui verrà eletta in Parlamento, attraverso Arabia Saudita, Kenya, Etiopia e della sua presa di coscienza dei diritti individuali inalienabili di ogni donna e di ogni persona negati da altri uomini, dalla famiglia, dalla società, dalla religione, dall'idea stessa di dio.
E' un'opera appassionante ed illuminante, importantissima per la mia evoluzione personale e non esito a metterla sullo stesso piano dell'autobiografia di Nelson Mandela.

Solo per queste ragioni non posso premiare un altro libro meraviglioso che ho avuto il piacere di leggere quest'anno: Gente indipendente, il capolavoro del nobel islandese Halldor Laxness.

Infine, citazioni per il sempiterno ed inesauribile Simenon (La maison du canal - ambientato nella campagna fiamminga e' un vero capolavoro di belgitudine) per Lansdale che continua ad appassionarmi anche nella sua versione piu' horror (La ragazza dal cuore d'acciaio; il valzer dell'orrore) e Fred Vargas maestra del noir.
Un'altra delusione (La pioggia prima che cada) invece da uno scrittore che ho amato tantissimo quale Jonathan Coe.


Ecco l'albo d'oro :

        1992 Cien años de soledad - G. Garcia Marquez
        1993 Confieso que he vivido - P. Neruda
        1994 La guerra dei poveri - N. Revelli
        1995 Il lungo cammino verso la liberta' - N. Mandela
        1996 Il libro dell'inquietudine - F. Pessoa
        1997 Las venas abiertas de America Latina - E. Galeano
        1998 L'idiota - F. Dostoievskij
        1999 La conquista dell'America - T. Todorov
        2000 Ebano - R. Kapuscinsky
        2001 Le particelle elementari - M. Houellebecq
        2002 La famiglia Winshaw - J. Coe
        2003 Pedigree - G. Simenon
        2004 Aspettando i barbari - J.M. Coetzee
        2005 Le correzioni - J. Franzen
        2006 Le fate dell'inverno - S.Mannuzzu

        2007 Infedele - Ayaan Hirsi Ali.


        Sull'Infedele segnalo anche questa recensione


libro d'oro ossia il più bel libro letto nel 2007


Tutti gli anni il mio amico Matteo Z. assegna il libro d'oro, ossia stabilisce qual'è il libro più bello che ha letto quell'anno.
Dal momento che ne ho sempre tratto degli utilissimi consigli per la lettura, ho deciso di pubblicare il suo commento al libro d'oro di quest'anno, seguito dall'albo d'oro, ossia dalla classifica generale dal 1992 ad oggi.

Buona lettura a tutti!

Prima di annunciare il vincitore un ricordo per Ryszard Kapuscinski straordinario giornalista e scrittore polacco scomparso nel 2007. I suoi libri sull' Africa (Ebano ha vinto l'edizione 2000 di questo premio), sulle Repubbliche Sovietiche, sull'Iran sono dei capolavori di giornalismo vero e vissuto. Consiglio a tutti In viaggio con Erodoto che ho letto quest'anno e che e' un vero e proprio manifesto del suo modo di intendere la vita e la professione di giornalista.

Il mio oscar al miglior libro letto nel 2007 va a Infedele di Ayaan Hirsi Ali.
E' un'autobiografia di straordinaria potenza e crudeltà ma anche di grande intelligenza in cui l'autrice narra il viaggio della sua vita dalla Somalia natia all'Olanda, in cui verrà eletta in Parlamento, attraverso Arabia Saudita, Kenya, Etiopia e della sua presa di coscienza dei diritti individuali inalienabili di ogni donna e di ogni persona negati da altri uomini, dalla famiglia, dalla società, dalla religione, dall'idea stessa di dio.
E' un'opera appassionante ed illuminante, importantissima per la mia evoluzione personale e non esito a metterla sullo stesso piano dell'autobiografia di Nelson Mandela.

Solo per queste ragioni non posso premiare un altro libro meraviglioso che ho avuto il piacere di leggere quest'anno: Gente indipendente, il capolavoro del nobel islandese Halldor Laxness.

Infine, citazioni per il sempiterno ed inesauribile Simenon (La maison du canal - ambientato nella campagna fiamminga e' un vero capolavoro di belgitudine) per Lansdale che continua ad appassionarmi anche nella sua versione piu' horror (La ragazza dal cuore d'acciaio; il valzer dell'orrore) e Fred Vargas maestra del noir.
Un'altra delusione (La pioggia prima che cada) invece da uno scrittore che ho amato tantissimo quale Jonathan Coe.


Ecco l'albo d'oro :

        1992 Cien años de soledad - G. Garcia Marquez
        1993 Confieso que he vivido - P. Neruda
        1994 La guerra dei poveri - N. Revelli
        1995 Il lungo cammino verso la liberta' - N. Mandela
        1996 Il libro dell'inquietudine - F. Pessoa
        1997 Las venas abiertas de America Latina - E. Galeano
        1998 L'idiota - F. Dostoievskij
        1999 La conquista dell'America - T. Todorov
        2000 Ebano - R. Kapuscinsky
        2001 Le particelle elementari - M. Houellebecq
        2002 La famiglia Winshaw - J. Coe
        2003 Pedigree - G. Simenon
        2004 Aspettando i barbari - J.M. Coetzee
        2005 Le correzioni - J. Franzen
        2006 Le fate dell'inverno - S.Mannuzzu

        2007 Infedele - Ayaan Hirsi Ali.


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martedì 1 gennaio 2008

Ljubljana



Ljubljana
(capitale della Slovenia), è una città graziosa e vivace che per le vacanze natalizie si riempe di luci, bancarelle e musica. Il drago è il simbolo della città.

Nonostante la temperatura oscillante tra i meno quattro e i meno due gradi sotto zero, le strade e le piazze sono gremite e tutti i bar e i ristoranti hanno tavolini all'aperto affollati di gente - ci sono le stufette da esterno (dette anche "funghetti"), ma la porzione di corpo che riescono a scaldare è decisamente esigua, per cui, se non si gode dell'equilibrio termico di un leone marino, è facile prendersi un accidente - io me lo sono preso, la tosse mi perseguita.



Stare pressati in mezzo alla folla diventa, allora, una necessità che, per fortuna, non è difficile soddisfare: è sufficiente camminare lungo il fiume, nelle stradine disseminate di locali che, nel periodo di vacanze, ospitano anche un mercatino all'aperto permanente (foto) che vende collane, artigianato e, soprattutto, sciarpe e cappelli di lana.

Anche piazza Prešernov è affollatissima, specie la sera, quando iniziano gli spettacoli gratuiti.
Il 30.12 abbiamo assistito al concerto di Danijela: entusiasmo, balli e atmosfera nazional-popolare, scaldata dall'immacabile vin brulè - che in sloveno si chiama in un altro modo e c'è anche nella versione con vino bianco (sa un pò di succo di mela ed è delizioso).




Sempre sul versante vita notturna non può mancare un tour alla Metelkova (foto): un'ex caserma occupata, ornata di murales e sculture, dove ogni porta (rigorosamente senza insegne) cela un baretto, una discoteca tecno o un locale con musica dal vivo o dj. La popolazione è la più varia. La paura è sempre quella di entrare in casa di qualcuno mentre si è alla ricerca di un bar.

Imperdibile la gita al castello: salire e soprattutto scendere per i sentieri ghiacciati è stata un'avventura - ma ne valeva la pena, sembrava di camminare in un bosco incantato e, del resto, il depliant turistico era perentorio al riguardo:
"Only sixty-year-old with heart problems take the tourist funicular up to the castle. Just walk up there. It's only a ten-minute walk and you'll manage"
(Solo i sessantenni con problemi cardiaci prendono la funicolare turistica fino al castello. Camminate. E' una passeggiata di soli 10 minuti, ce la farete).

Dal medesimo, divertente, depliant apprendiamo anche che la popolazione locale è molto tormentata dai turisti britannici e irlandesi che hanno la mania di tuffarsi nel fiume:
"OK, all you British and Irish boys, remember this. No matter HOW drunk you get, and no matter HOW much you really really feel like it, NEVER jump in the Ljubljanica river. It's kind of unhealthy"
(Bene, tutti voi, ragazzi britanni e irlandesi, ricordate questo. Non importa quanto siete ubriachi, non importa quanto avete voglia di farlo. Non tuffatevi mai nel fiume Ljubljanica. Non è sano).



La cucina slovena mi è piaciuta tantissimo:
al Gostilna Zlata Ribica (in Cankarjevo nabrezje 5-7) ho mangiato gli struklji (rotolini di pasta con ripieno vario di verdure, ricotta e/0 carne) e dell'ottimo filetto di maiale con verdure, gnocchetti e pancetta.
Al Vodnikov Hram (in Vodnikov trg 2) era ottima la zuppa di funghi in crosta di pane (foto) e deliziosi i ravioli sloveni (enormi fagottini ripieni di carne di maiale, serviti con una crema di porri).
Squisiti gli hot dog e gli hamburger venduti dalle svariate bancarelle, specie da quelle in piazza Prešernov.

Ho alloggiato all'ostello Vila Veselova: carino, senza pretese, un pò rumoroso (per via della vicina circonvallazione) e decadente (l'intonaco della nostra stanza si staccava a grossi pezzi, le lampadine continuavano a fulminarsi, l'ebollitore non funzionava).
Il posto più bello per alloggiare dovrebbe essere il Prison Hostel Celica: una prigione militare trasformata in ostello e arredata da giovani architetti - ma bisogna prenotare per tempo perchè ci sono solo 29 celle (i problemi di sovraffollamento carcerario sono ben noti).

Per chi fosse interessato a visitare Ljubljana segnalo il sito lubiana.org dove potete trovare molte informazioni utili

Ljubljana



Ljubljana
(capitale della Slovenia), è una città graziosa e vivace che per le vacanze natalizie si riempe di luci, bancarelle e musica. Il drago è il simbolo della città.

Nonostante la temperatura oscillante tra i meno quattro e i meno due gradi sotto zero, le strade e le piazze sono gremite e tutti i bar e i ristoranti hanno tavolini all'aperto affollati di gente - ci sono le stufette da esterno (dette anche "funghetti"), ma la porzione di corpo che riescono a scaldare è decisamente esigua, per cui, se non si gode dell'equilibrio termico di un leone marino, è facile prendersi un accidente - io me lo sono preso, la tosse mi perseguita.



Stare pressati in mezzo alla folla diventa, allora, una necessità che, per fortuna, non è difficile soddisfare: è sufficiente camminare lungo il fiume, nelle stradine disseminate di locali che, nel periodo di vacanze, ospitano anche un mercatino all'aperto permanente (foto) che vende collane, artigianato e, soprattutto, sciarpe e cappelli di lana.

Anche piazza Prešernov è affollatissima, specie la sera, quando iniziano gli spettacoli gratuiti.
Il 30.12 abbiamo assistito al concerto di Danijela: entusiasmo, balli e atmosfera nazional-popolare, scaldata dall'immacabile vin brulè - che in sloveno si chiama in un altro modo e c'è anche nella versione con vino bianco (sa un pò di succo di mela ed è delizioso).




Sempre sul versante vita notturna non può mancare un tour alla Metelkova (foto): un'ex caserma occupata, ornata di murales e sculture, dove ogni porta (rigorosamente senza insegne) cela un baretto, una discoteca tecno o un locale con musica dal vivo o dj. La popolazione è la più varia. La paura è sempre quella di entrare in casa di qualcuno mentre si è alla ricerca di un bar.

Imperdibile la gita al castello: salire e soprattutto scendere per i sentieri ghiacciati è stata un'avventura - ma ne valeva la pena, sembrava di camminare in un bosco incantato e, del resto, il depliant turistico era perentorio al riguardo:
"Only sixty-year-old with heart problems take the tourist funicular up to the castle. Just walk up there. It's only a ten-minute walk and you'll manage"
(Solo i sessantenni con problemi cardiaci prendono la funicolare turistica fino al castello. Camminate. E' una passeggiata di soli 10 minuti, ce la farete).

Dal medesimo, divertente, depliant apprendiamo anche che la popolazione locale è molto tormentata dai turisti britannici e irlandesi che hanno la mania di tuffarsi nel fiume:
"OK, all you British and Irish boys, remember this. No matter HOW drunk you get, and no matter HOW much you really really feel like it, NEVER jump in the Ljubljanica river. It's kind of unhealthy"
(Bene, tutti voi, ragazzi britanni e irlandesi, ricordate questo. Non importa quanto siete ubriachi, non importa quanto avete voglia di farlo. Non tuffatevi mai nel fiume Ljubljanica. Non è sano).



La cucina slovena mi è piaciuta tantissimo:
al Gostilna Zlata Ribica (in Cankarjevo nabrezje 5-7) ho mangiato gli struklji (rotolini di pasta con ripieno vario di verdure, ricotta e/0 carne) e dell'ottimo filetto di maiale con verdure, gnocchetti e pancetta.
Al Vodnikov Hram (in Vodnikov trg 2) era ottima la zuppa di funghi in crosta di pane (foto) e deliziosi i ravioli sloveni (enormi fagottini ripieni di carne di maiale, serviti con una crema di porri).
Squisiti gli hot dog e gli hamburger venduti dalle svariate bancarelle, specie da quelle in piazza Prešernov.

Ho alloggiato all'ostello Vila Veselova: carino, senza pretese, un pò rumoroso (per via della vicina circonvallazione) e decadente (l'intonaco della nostra stanza si staccava a grossi pezzi, le lampadine continuavano a fulminarsi, l'ebollitore non funzionava).
Il posto più bello per alloggiare dovrebbe essere il Prison Hostel Celica: una prigione militare trasformata in ostello e arredata da giovani architetti - ma bisogna prenotare per tempo perchè ci sono solo 29 celle (i problemi di sovraffollamento carcerario sono ben noti).

Per chi fosse interessato a visitare Ljubljana segnalo il sito lubiana.org dove potete trovare molte informazioni utili