lunedì 29 ottobre 2007

Blitris, La filosofia del Dr. House




"Vi ho insegnato a mentire,
barare, rubare
e appena volto le spalle vi mettete in fila?!?
"
G. House, II.10




Come per l'impareggiabile Winnie Puh e la filosofia: da Platone a Popper di J. Tyerman Williams o il più recente I Simpson e la filosofia,
anche alla base de La filosofia del Dr. House vi è un'idea semplice e geniale:
non tanto quella di avvicinare le persone alla filosofia (impresa ardua e un pò naïf),
quanto quella di avvicinare la filosofia alla gente,
ossia di mettere alla prova le categorie filosofiche, di saggiarne la capacità esplicativa,
attraverso l'analisi di un oggetto, di un tema, preciso e notorio.

E il tentativo può dirsi pienamente riuscito: i quattro saggi,
più o meno brillanti, più o meno divertenti, sono tutti chiari e ben argomentati,
nelle loro premesse e nelle loro conclusioni.
I 4 ricercatori raccolti sotto il nome colletivo di Blitris esaminano
nell'ordine: l'iper-etica di House, l'etica (deontologica o consequenzialista?) di House,
la sua epistemologia (in che senso House sa quello che gli altri non sanno?) e
la sua logica.

Mi è parso particolarmente perspicuo il primo saggio -
non che gli altri non siano convincenti, al contrario, ma per lo più
si limitano ad indagare House attraverso categorie generali,
che potrebbero essere applicate a qualsiasi oggetto -
così ci si potrebbe chiedere:
l'etica di Batman è deontologica o consequenzialista?
in che senso Perry Mason sa quello che gli altri non sanno?
qual'è la logica degli investigatori di Law and order?.

In L'iper-etica di House, Blitris1 (Regazzoni) analizza, invece,
la specifica etica che House ha,
o, meglio, l'etica (l'iper-etica) che House è,
e giunge a paragonarlo addirittura al Singolo di Kierkegaard, al soggetto
"che risponde ad una sola cosa: all'ingiunzione di un dovere assoluto
come dovere che lo lega all'altro assoluto
in quanto altro nella sua singolarità" (p. 25).

Per House conta solo salvare quel suo unico paziente
e a questo dovere assoluto sacrifica ogni altro dovere etico,
e, pertanto, ogni altro soggetto, ogni altra persona cui l'etica (generale e universalizzabile)
imporrebbe di rispondere nello stesso modo (p. 43).
L'iper-etica di House è l'etica "della situazione e della risposta singolare" (p. 40)
e ciò implica anche che il momento della decisione,
il momento in cui House deve decidere che fare,
non sia regolato, ma sia sempre un gesto di follia (p. 41).
(tra parentesi: se questa fosse una recensione seria,
sarebbe interessante indagare i margini di
in/compatibilità tra questa tesi e quelle relative all'etica consequenzialista,
benchè non sempre coerente, di House e alla sua logica).

La tesi di Blitris1 è brillante e supportata da valide ragioni;
eppure c'è un aspetto che non mi persuade del tutto, o, meglio,
mi pare plausibile anche un'altra diversa interpretazione.

Ad House, lo sappiamo, i pazienti non interessano,
ad House interessano solo le malattie:
House vuole fare quello che fa meglio, sciogliere la diagnosi, risolvere il caso
- anche se la diagnosi è mortale, anche se la malattia è incurabile,
House vince comunque.
Questo sembra essere il dovere iper-etico cui House sacrifica tutto il resto:
non salvare il paziente, ma risolvere il caso.
L'altro assoluto non è un "altro", un essere umano nella sua singolarità,
semmai è quel caso singolo, ma un caso che vale in quanto permette
ad House di fare ciò che House sa fare,
l'unico fine che la sua iper-etica gli impone: risolvere il caso.
Il dovere iper-etico assoluto alla fine lega House soltanto a se stesso,
in una relazione autoreferenziale e narcisista.

Ovviamente, that's all folk





Blitris, La filosofia del Dr. House




"Vi ho insegnato a mentire,
barare, rubare
e appena volto le spalle vi mettete in fila?!?
"
G. House, II.10




Come per l'impareggiabile Winnie Puh e la filosofia: da Platone a Popper di J. Tyerman Williams o il più recente I Simpson e la filosofia,
anche alla base de La filosofia del Dr. House vi è un'idea semplice e geniale:
non tanto quella di avvicinare le persone alla filosofia (impresa ardua e un pò naïf),
quanto quella di avvicinare la filosofia alla gente,
ossia di mettere alla prova le categorie filosofiche, di saggiarne la capacità esplicativa,
attraverso l'analisi di un oggetto, di un tema, preciso e notorio.

E il tentativo può dirsi pienamente riuscito: i quattro saggi,
più o meno brillanti, più o meno divertenti, sono tutti chiari e ben argomentati,
nelle loro premesse e nelle loro conclusioni.
I 4 ricercatori raccolti sotto il nome colletivo di Blitris esaminano
nell'ordine: l'iper-etica di House, l'etica (deontologica o consequenzialista?) di House,
la sua epistemologia (in che senso House sa quello che gli altri non sanno?) e
la sua logica.

Mi è parso particolarmente perspicuo il primo saggio -
non che gli altri non siano convincenti, al contrario, ma per lo più
si limitano ad indagare House attraverso categorie generali,
che potrebbero essere applicate a qualsiasi oggetto -
così ci si potrebbe chiedere:
l'etica di Batman è deontologica o consequenzialista?
in che senso Perry Mason sa quello che gli altri non sanno?
qual'è la logica degli investigatori di Law and order?.

In L'iper-etica di House, Blitris1 (Regazzoni) analizza, invece,
la specifica etica che House ha,
o, meglio, l'etica (l'iper-etica) che House è,
e giunge a paragonarlo addirittura al Singolo di Kierkegaard, al soggetto
"che risponde ad una sola cosa: all'ingiunzione di un dovere assoluto
come dovere che lo lega all'altro assoluto
in quanto altro nella sua singolarità" (p. 25).

Per House conta solo salvare quel suo unico paziente
e a questo dovere assoluto sacrifica ogni altro dovere etico,
e, pertanto, ogni altro soggetto, ogni altra persona cui l'etica (generale e universalizzabile)
imporrebbe di rispondere nello stesso modo (p. 43).
L'iper-etica di House è l'etica "della situazione e della risposta singolare" (p. 40)
e ciò implica anche che il momento della decisione,
il momento in cui House deve decidere che fare,
non sia regolato, ma sia sempre un gesto di follia (p. 41).
(tra parentesi: se questa fosse una recensione seria,
sarebbe interessante indagare i margini di
in/compatibilità tra questa tesi e quelle relative all'etica consequenzialista,
benchè non sempre coerente, di House e alla sua logica).

La tesi di Blitris1 è brillante e supportata da valide ragioni;
eppure c'è un aspetto che non mi persuade del tutto, o, meglio,
mi pare plausibile anche un'altra diversa interpretazione.

Ad House, lo sappiamo, i pazienti non interessano,
ad House interessano solo le malattie:
House vuole fare quello che fa meglio, sciogliere la diagnosi, risolvere il caso
- anche se la diagnosi è mortale, anche se la malattia è incurabile,
House vince comunque.
Questo sembra essere il dovere iper-etico cui House sacrifica tutto il resto:
non salvare il paziente, ma risolvere il caso.
L'altro assoluto non è un "altro", un essere umano nella sua singolarità,
semmai è quel caso singolo, ma un caso che vale in quanto permette
ad House di fare ciò che House sa fare,
l'unico fine che la sua iper-etica gli impone: risolvere il caso.
Il dovere iper-etico assoluto alla fine lega House soltanto a se stesso,
in una relazione autoreferenziale e narcisista.

Ovviamente, that's all folk





sabato 27 ottobre 2007

Steinbeck, Furore









"Le grandi società non sanno
che la linea di demarcazione tra fame e furore
è sottile come un capello. E il denaro
che potrebbe andare in salari va in gas,
in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.
Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro,
e in seno ad essa serpreggia il furore, e fermenta"
J. Steinbek, Furore


"
And The highway is alive tonight
Nobody's foolin' nobody is to where it goes I'm sitting down here in the campfire light Searchin' for the Ghost of Tom Joad"
B. Springsteen, The ghost of Tom Joad


Mezzadri, piccoli proprietari, famiglie che da sempre vivono
della terra che lavorano, se la sono ipotecata un anno in cui il raccolto era scarso,
adesso è un altro anno di carestia, la terra è povera, il clima ostile
e non ci sarà granturco da raccogliere.
Ma le banche non accettano dilazioni,
vogliono essere pagate, chi non paga deve andarsene,
deve lasciar posto al progresso,
che vuol dire latifondo,
che vuol dire macchine che, da sole, svolgono il lavoro di intere famiglie.

E da mezzadri che erano si trasformano in nomadi,
abbandonano le terre che non sono più loro,
truffati da abili speculatori che comprano per niente le loro cose,
che gli vendono rottami di macchine a prezzi esosi.
E i nomadi caricano sui rottami tutto quello che possono caricare,
e dall'Oklahoma e dai paesi vicini
si mettono in marcia, invadono coi loro carretti la Highway 66,
diretti verso la California,
dove c'è lavoro, lo dicono i volantini che c'è lavoro -
perché spendere i soldi per farli stampare se non fosse vero?

E dove c'è lavoro per 100 si presentano in migliaia,
e i salari scendono, e le speranze di una vita nuova si infrangono
contro lo sfruttamento, la fame,
la paura dei locali, che reagiscono con violenza
a questa invasione di straccioni sporchi e denutriti.

E' l'America della Grande Depressione,
ma è anche una storia che abbiamo già letto -
in Rulli di tamburi per Rancas di Scorza,
in Fontamara di Silone, in Una terra chiamata Alentejo di Saramago,
in Cacao di Amado -
una storia che abbiamo già visto e che - come ci ricorda Springsteen -
continuiamo a vedere tutti i giorni.

La storia della miseria umana,
dello sfruttamente dell'uomo sull'uomo,
ma anche la storia della solidarietà tra gli ultimi,
della progressiva presa di coscienza dell'ingiustizia sociale
e dell'idea che, unendo le forze, il mondo si può - si deve - cambiare.

Una storia che Steinbeck racconta con impareggiabile maestria,
intrecciando, in un romanzo corale, le vicende di una famiglia, i Joad,
con notizie di cronaca e pagine in cui viene lasciato spazio
alle voci e alle storie di altri personaggi senza volto, protagonisti o spettatori
di questa vicenda tragica
- tra i tanti, segnalo il capitolo XV, dove Steinbeck ci trascina
nell'angolo visuale di una cameriera, che assiste dal suo ristorante
alla sfilata di straccioni sulla Highway 66.

Una scrittura intensa e pure pacata, mai frenetica,
esente da ogni moralismo o gratuito filosofeggiare,
capace di tratteggiare in poche righe psicologie complesse, personaggi a tutto tondo.
E i personaggi di Furore sono di quelli che non si dimenticano,
di quelli che dispiace abbandonare alla fine del libro.
Si vorrebbe quasi che la storia non finisse -
e la storia, infatti, continua ancora, da qualche altra parte,
meno lontano di quanto si vorrebbe.
Searchin' for the Ghost of Tom Joad






Steinbeck, Furore









"Le grandi società non sanno
che la linea di demarcazione tra fame e furore
è sottile come un capello. E il denaro
che potrebbe andare in salari va in gas,
in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.
Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro,
e in seno ad essa serpreggia il furore, e fermenta"
J. Steinbek, Furore


"
And The highway is alive tonight
Nobody's foolin' nobody is to where it goes I'm sitting down here in the campfire light Searchin' for the Ghost of Tom Joad"
B. Springsteen, The ghost of Tom Joad


Mezzadri, piccoli proprietari, famiglie che da sempre vivono
della terra che lavorano, se la sono ipotecata un anno in cui il raccolto era scarso,
adesso è un altro anno di carestia, la terra è povera, il clima ostile
e non ci sarà granturco da raccogliere.
Ma le banche non accettano dilazioni,
vogliono essere pagate, chi non paga deve andarsene,
deve lasciar posto al progresso,
che vuol dire latifondo,
che vuol dire macchine che, da sole, svolgono il lavoro di intere famiglie.

E da mezzadri che erano si trasformano in nomadi,
abbandonano le terre che non sono più loro,
truffati da abili speculatori che comprano per niente le loro cose,
che gli vendono rottami di macchine a prezzi esosi.
E i nomadi caricano sui rottami tutto quello che possono caricare,
e dall'Oklahoma e dai paesi vicini
si mettono in marcia, invadono coi loro carretti la Highway 66,
diretti verso la California,
dove c'è lavoro, lo dicono i volantini che c'è lavoro -
perché spendere i soldi per farli stampare se non fosse vero?

E dove c'è lavoro per 100 si presentano in migliaia,
e i salari scendono, e le speranze di una vita nuova si infrangono
contro lo sfruttamento, la fame,
la paura dei locali, che reagiscono con violenza
a questa invasione di straccioni sporchi e denutriti.

E' l'America della Grande Depressione,
ma è anche una storia che abbiamo già letto -
in Rulli di tamburi per Rancas di Scorza,
in Fontamara di Silone, in Una terra chiamata Alentejo di Saramago,
in Cacao di Amado -
una storia che abbiamo già visto e che - come ci ricorda Springsteen -
continuiamo a vedere tutti i giorni.

La storia della miseria umana,
dello sfruttamente dell'uomo sull'uomo,
ma anche la storia della solidarietà tra gli ultimi,
della progressiva presa di coscienza dell'ingiustizia sociale
e dell'idea che, unendo le forze, il mondo si può - si deve - cambiare.

Una storia che Steinbeck racconta con impareggiabile maestria,
intrecciando, in un romanzo corale, le vicende di una famiglia, i Joad,
con notizie di cronaca e pagine in cui viene lasciato spazio
alle voci e alle storie di altri personaggi senza volto, protagonisti o spettatori
di questa vicenda tragica
- tra i tanti, segnalo il capitolo XV, dove Steinbeck ci trascina
nell'angolo visuale di una cameriera, che assiste dal suo ristorante
alla sfilata di straccioni sulla Highway 66.

Una scrittura intensa e pure pacata, mai frenetica,
esente da ogni moralismo o gratuito filosofeggiare,
capace di tratteggiare in poche righe psicologie complesse, personaggi a tutto tondo.
E i personaggi di Furore sono di quelli che non si dimenticano,
di quelli che dispiace abbandonare alla fine del libro.
Si vorrebbe quasi che la storia non finisse -
e la storia, infatti, continua ancora, da qualche altra parte,
meno lontano di quanto si vorrebbe.
Searchin' for the Ghost of Tom Joad






domenica 21 ottobre 2007

Dr. House



Non c'è niente da dire:
gli americani i serial tv li sanno proprio fare, e il dr. House è uno dei loro prodotti migliori.
Un montaggio incalzante, ma non frenetico, una fotografia curata,
una regia che miscela sapientemente suspense,
dialoghi serrati, umorismo e momenti introspettivi (a sfondo musicale),
ripetendo in infinite variazioni la stessa struttura narrativa -
le puntate seguono tutte lo stesso schema, cosa che, evidentemente, risponde alle preferenze del pubblico, almeno secondo verosimili studi di settore -
insomma, la morfologia di House svela l'abitudinarietà (e la pigrizia mentale) dello spettatore televisivo medio, semmai ce ne fosse stato bisogno.

Il punto forte della serie è, indubbiamente, il soggetto.
Il personaggio di House ha chiari riferimenti letterari: Sherlock Holmes, innanzitutto,
ma anche l'Achab di Melville (citato in almeno due puntate).

Come Holmes, House è un genio dell'abduzione, l'arte di formulare ipotesi esplicative - qualcosa di molto simile al tirare a indovinare.
Come Holmes, House è un tossicomane, morfina in un caso, Vicodin nell'altro - sempre antidoloriferi, ma la differenza non è irrilevante, perchè la morfina si inietta per via endovenosa - decisamente troppo forte, anche in seconda serata!
La dipendenza dalla droga è una cifra di entrambi i personaggi:
ne sottolinea l'umanità tragica, il dolore esistenziale, prima che fisico.

Come Achab, House è zoppo e ossessiosanato da un'idea, una missione:
uccidere Moby Dick -
ma la Moby Dick di House è un'oggetto oscuro, di difficile individuazione:
risolvere il caso, certo, ma il caso è sempre diverso e arriva sempre un caso nuovo,
la caccia prosegue sempre, la meta è irraggiungibile.

Eppure, più che un personaggio letterario, Greg House mi ricorda un eroe dei fumetti:
i suoi tratti caratteristici sono così marcati da renderlo irreale e i cambiamenti in lui sono sempre minimi e per lo più esteriori (chitarra nuova, bastone nuovo).
House è il cavaliere oscuro, il genio cinico e maledetto, che porta impressa sulla carne i segni della sua diversità.
Un eroe anti-convenzionale che non vuole salvare il mondo e nemmeno i suoi pazienti,
ma vuole solo esercitare il suo dono, fare quello che sa fare meglio e che, più di ogni cosa, lo connota come Greg House - come qualcuno gli fa notare, un tipo così stronzo non potrebbe certo lavorare, se non fosse davvero bravo.

"Tu non ti piaci, ma ti ammiri" - gli dice Wilson (il grillo parlante).
House è infelice, ma fedele a se stessso. E a noi piace proprio perché è integro
nel suo essere Greg House (cinico ed egocentrico, fino in fondo) ed è disperato in questa sua integrità:
la prima caratteristica ne fa un supereroe, la seconda un supereroe-umano.

Non esageriamo, però, la carica anti-conformista del prodotto televisivo:
il dr. House, alla fine, esprime una morale assolutamente convenzionale, perfino nei tratti in cui è anti-conformista.
Certo, House è un tossico che non rispetta il protocollo e ignora le regole, ma alla fine ha ragione e salva (quasi sempre) i pazienti - ed è tollerato dalla Cuddy nella misura in cui ha ragione, ed è frenato dal buon senso di tutti gli altri personaggi che gli fanno da solerte contrappunto, tranquillizzando gli spettatori sulla morale dominante.
I momenti di buonismo, inoltre, non mancano certo nel serial, e capita spesso che perfino House giunga a stabilire contatti umani e affettivi con pazienti e colleghi - svelando così il suo lato umano - momenti imbarazzanti, a dire il vero, come la scena del bacio con la sua ex, un vero scivolone, a mio giudizio.
Del resto il prodotto è confezionato per piacere a tutti, gli autori son persone che sanno fare il loro mestiore. O almeno lo sapevano fare.

Al riguardo, ho iniziato a vedere la serie IV e sono davvero perplessa:
ho come l'impressione che gli autori abbiamo esaurito le energie creative e si stiano scrivendo addosso.
House comincia a dare preoccupanti segni di squilibrio psichico:
si veste da stregone, seleziona i suoi assistenti in modo totalmente arbitrario -
li caccia per un nonnulla, ma poi tiene un'aspirante che ha causato la morte di un paziente,
perché sa che non farà più lo stesso errore (sic!) -
si procura un arresto cardiaco per scoprire se c'è qualcosa dopo la morte - gli era venuto un dubbio...
Inoltre mi pare che la serie stia prendendo un'insopportabile piega mistica.
Speriamo che rinsaviscano.

Dr. House



Non c'è niente da dire:
gli americani i serial tv li sanno proprio fare, e il dr. House è uno dei loro prodotti migliori.
Un montaggio incalzante, ma non frenetico, una fotografia curata,
una regia che miscela sapientemente suspense,
dialoghi serrati, umorismo e momenti introspettivi (a sfondo musicale),
ripetendo in infinite variazioni la stessa struttura narrativa -
le puntate seguono tutte lo stesso schema, cosa che, evidentemente, risponde alle preferenze del pubblico, almeno secondo verosimili studi di settore -
insomma, la morfologia di House svela l'abitudinarietà (e la pigrizia mentale) dello spettatore televisivo medio, semmai ce ne fosse stato bisogno.

Il punto forte della serie è, indubbiamente, il soggetto.
Il personaggio di House ha chiari riferimenti letterari: Sherlock Holmes, innanzitutto,
ma anche l'Achab di Melville (citato in almeno due puntate).

Come Holmes, House è un genio dell'abduzione, l'arte di formulare ipotesi esplicative - qualcosa di molto simile al tirare a indovinare.
Come Holmes, House è un tossicomane, morfina in un caso, Vicodin nell'altro - sempre antidoloriferi, ma la differenza non è irrilevante, perchè la morfina si inietta per via endovenosa - decisamente troppo forte, anche in seconda serata!
La dipendenza dalla droga è una cifra di entrambi i personaggi:
ne sottolinea l'umanità tragica, il dolore esistenziale, prima che fisico.

Come Achab, House è zoppo e ossessiosanato da un'idea, una missione:
uccidere Moby Dick -
ma la Moby Dick di House è un'oggetto oscuro, di difficile individuazione:
risolvere il caso, certo, ma il caso è sempre diverso e arriva sempre un caso nuovo,
la caccia prosegue sempre, la meta è irraggiungibile.

Eppure, più che un personaggio letterario, Greg House mi ricorda un eroe dei fumetti:
i suoi tratti caratteristici sono così marcati da renderlo irreale e i cambiamenti in lui sono sempre minimi e per lo più esteriori (chitarra nuova, bastone nuovo).
House è il cavaliere oscuro, il genio cinico e maledetto, che porta impressa sulla carne i segni della sua diversità.
Un eroe anti-convenzionale che non vuole salvare il mondo e nemmeno i suoi pazienti,
ma vuole solo esercitare il suo dono, fare quello che sa fare meglio e che, più di ogni cosa, lo connota come Greg House - come qualcuno gli fa notare, un tipo così stronzo non potrebbe certo lavorare, se non fosse davvero bravo.

"Tu non ti piaci, ma ti ammiri" - gli dice Wilson (il grillo parlante).
House è infelice, ma fedele a se stessso. E a noi piace proprio perché è integro
nel suo essere Greg House (cinico ed egocentrico, fino in fondo) ed è disperato in questa sua integrità:
la prima caratteristica ne fa un supereroe, la seconda un supereroe-umano.

Non esageriamo, però, la carica anti-conformista del prodotto televisivo:
il dr. House, alla fine, esprime una morale assolutamente convenzionale, perfino nei tratti in cui è anti-conformista.
Certo, House è un tossico che non rispetta il protocollo e ignora le regole, ma alla fine ha ragione e salva (quasi sempre) i pazienti - ed è tollerato dalla Cuddy nella misura in cui ha ragione, ed è frenato dal buon senso di tutti gli altri personaggi che gli fanno da solerte contrappunto, tranquillizzando gli spettatori sulla morale dominante.
I momenti di buonismo, inoltre, non mancano certo nel serial, e capita spesso che perfino House giunga a stabilire contatti umani e affettivi con pazienti e colleghi - svelando così il suo lato umano - momenti imbarazzanti, a dire il vero, come la scena del bacio con la sua ex, un vero scivolone, a mio giudizio.
Del resto il prodotto è confezionato per piacere a tutti, gli autori son persone che sanno fare il loro mestiore. O almeno lo sapevano fare.

Al riguardo, ho iniziato a vedere la serie IV e sono davvero perplessa:
ho come l'impressione che gli autori abbiamo esaurito le energie creative e si stiano scrivendo addosso.
House comincia a dare preoccupanti segni di squilibrio psichico:
si veste da stregone, seleziona i suoi assistenti in modo totalmente arbitrario -
li caccia per un nonnulla, ma poi tiene un'aspirante che ha causato la morte di un paziente,
perché sa che non farà più lo stesso errore (sic!) -
si procura un arresto cardiaco per scoprire se c'è qualcosa dopo la morte - gli era venuto un dubbio...
Inoltre mi pare che la serie stia prendendo un'insopportabile piega mistica.
Speriamo che rinsaviscano.