sabato 23 febbraio 2008

Contro l'oscurantismo cattolico - e le modifiche alla legge n. 194

Sembra incredibile che in questo paese ci siano uomini politici e cittadini comuni che vorrebbero riportarci indietro di 30 anni, eppure è così.

Sulla scia dell'oscurantismo cattolico, sempre più voci si uniscono al coro di quanti vorrebbero modificare (se non abrogare) la legge 22 maggio 1978 n. 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza.

Ferrara fonda la lista pro-life con un programma incentrato sul rifiuto di distribuire anche in Italia la pillola abortiva, Ru486, e l'appoggio ai neonatologi per la tutela sanitaria del neonato malato anche in assenza del consenso genitoriale; La Binetti (Pd) è preoccupata che l'accordo con i radicali possa compromettere i valori cattolici, ossia la lotta contro l'aborto e la sopracitata pillola abortiva; Berlusconi chiede all'ONU di riconoscere il diritto alla vita a partire dal concepimento (ovvero di riconoscere gli ovociti fecondati come soggetti di diritto - sic!), e sono sempre di più quelli che accolgono l'audace analogia ratzingeriana tra pena di morte e aborto (e ce ne vuole di fantasia).

La situazione è surreale e verrebbe da ridire se non fosse che rischiamo sul serio di ritrovarci catapultati in un'epoca mediovale di aborti clandestini e in un incubo post-futuristico di accanimento terapeutico verso feti destinati, nella migliore delle ipotesi, a crescere con malformazioni cerebrali permanenti. Il rifiuto della Ru486 poi è del tutto irrazionale, specie nel quadro della normativa vigente.

A prescindere dalla controversia sulla natura umana o meno dei concepiti (una natura che comunque mi sembra difficilmente configurabile quanto meno rispetto alle prime fasi dello sviluppo embrionale) esiste, a mio giudizio, un argomento forte a favore dell'interruzione di gravidanza.
Nessuno mi può costringere a rimanere fisicamente collegata ad un altro essere umano adulto al fine di tenerlo in vita, neppure se questo essere umano è mio figlio (o un mio genitore o il mio coniuge). Una simile costrizione è vietata giuridicamente dalla normativa attuale ed è moralmente riprovevole, contraria alla libertà di disporre del proprio corpo. Chi vuole proibire l'aborto vorrebbe invece imporre un simile obbligo a favore, non di un soggetto adulto, bensì di un embrione, di un ammasso di cellule ancora non specializzate.

Liberadonna ha lanciato una petizione rivolta a tutti i dirigenti del centro-sinistra affinché inseriscano nei loro programmi elettorali l'impegno a non modificare l'attuale normativa sull'interruzione di gravidanza. Per aderire è sufficiante firmare qui.

Contro l'oscurantismo cattolico - e le modifiche alla legge n. 194

Sembra incredibile che in questo paese ci siano uomini politici e cittadini comuni che vorrebbero riportarci indietro di 30 anni, eppure è così.

Sulla scia dell'oscurantismo cattolico, sempre più voci si uniscono al coro di quanti vorrebbero modificare (se non abrogare) la legge 22 maggio 1978 n. 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza.

Ferrara fonda la lista pro-life con un programma incentrato sul rifiuto di distribuire anche in Italia la pillola abortiva, Ru486, e l'appoggio ai neonatologi per la tutela sanitaria del neonato malato anche in assenza del consenso genitoriale; La Binetti (Pd) è preoccupata che l'accordo con i radicali possa compromettere i valori cattolici, ossia la lotta contro l'aborto e la sopracitata pillola abortiva; Berlusconi chiede all'ONU di riconoscere il diritto alla vita a partire dal concepimento (ovvero di riconoscere gli ovociti fecondati come soggetti di diritto - sic!), e sono sempre di più quelli che accolgono l'audace analogia ratzingeriana tra pena di morte e aborto (e ce ne vuole di fantasia).

La situazione è surreale e verrebbe da ridire se non fosse che rischiamo sul serio di ritrovarci catapultati in un'epoca mediovale di aborti clandestini e in un incubo post-futuristico di accanimento terapeutico verso feti destinati, nella migliore delle ipotesi, a crescere con malformazioni cerebrali permanenti. Il rifiuto della Ru486 poi è del tutto irrazionale, specie nel quadro della normativa vigente.

A prescindere dalla controversia sulla natura umana o meno dei concepiti (una natura che comunque mi sembra difficilmente configurabile quanto meno rispetto alle prime fasi dello sviluppo embrionale) esiste, a mio giudizio, un argomento forte a favore dell'interruzione di gravidanza.
Nessuno mi può costringere a rimanere fisicamente collegata ad un altro essere umano adulto al fine di tenerlo in vita, neppure se questo essere umano è mio figlio (o un mio genitore o il mio coniuge). Una simile costrizione è vietata giuridicamente dalla normativa attuale ed è moralmente riprovevole, contraria alla libertà di disporre del proprio corpo. Chi vuole proibire l'aborto vorrebbe invece imporre un simile obbligo a favore, non di un soggetto adulto, bensì di un embrione, di un ammasso di cellule ancora non specializzate.

Liberadonna ha lanciato una petizione rivolta a tutti i dirigenti del centro-sinistra affinché inseriscano nei loro programmi elettorali l'impegno a non modificare l'attuale normativa sull'interruzione di gravidanza. Per aderire è sufficiante firmare qui.

domenica 17 febbraio 2008

Dick, E Jones creò il mondo

«Lui annuì. "Suppongo che il Relativismo sia cinico. Sicuramente non è idealista. E' il punto di arrivo di chi è stato ucciso, ferito, ridotto in miseria e a lavorare duramente per le vuote parole. E' il prodotto delle generazioni che gridavano slogan, marciavano con le vanghe e le armi, cantavano e scandivano inni patriottici, rendevano omaggio alle bandiere"
"Ma voi le sbattete in prigione. Queste persone che non sono d'accordo con voi - non permettete loro di dissentire..guarda il ministro Jones"

"Jones può benissimo dissentire. Può credere a quello che vuole; può credere che la terra è piatta, che Dio è una cipolla, che i bambini nascono nelle buste di plastica. Può avere l'opinione che preferisce; ma quando comincia a spacciarla per Verità Assoluta..."

"Lo sbattete in prigione" disse Nina rigida.

"No" la corresse Cussick. "Tediamo la mano, diciamo semplicemente: dimostra o stai zitto. Conforta i fatti quello che vai dicendo. Se vuoi dire che gli ebrei sono la radice di tutti i mali - devi provarlo. Lo puoi dire se riesci a dimostrarlo. Altrimenti, fila ai lavori forzati...
»





Dopo una devastante terza guerra mondiale, il potere è assunto dal Govfed (il Governo Mondiale Federale) che s' ispira all'ideologia politica e morale del Relativismo, così come esposto nel libro di Hoff.
Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie opinioni, a vivere secondo il loro personale codice etico, fino a quando non pretendano di contestare il Relativismo, di spacciare le loro preferenze per la verità assoluta.
Il Govfed si regge tutto sul fragile equilibrio di un paradosso: per il relativismo la verità assoluta non esiste - ma questa è una verità assoluta, che, come tale, inficia il relativismo. Si tratta della nota consequentia mirabilis, con cui già Paltone aveva confutato la dottrina di Protagora nel Teeteto: se il relativismo è vero, allora il relativismo è falso - se fosse vero che tutto è relativo, allora ciò sarebbe assoluto.

E questo fragile equilibrio si spezza all'apparire di Jones: perchè Jones sa la verità, Jones conosce il futuro, Jones è in grado di vedere un anno avanti agli altri.
Dal suo punto di vista, in realtà, Jones è schiavo del passato, costretto a rivivere ogni anno due volte, è un burattino che non ha alcun potere di modificare gli eventi: non può che ripetere ciò che ha già fatto e che non poteva non fare - e questa è una delle tante geniali intuizione di Dick: se il futuro è già scritto, il presente è già passato e un preveggente, come Jones, non è che una figura patetica costretta ad assistere due volte ad ogni evento, senza mai poter incidere su esso.

Ma per le masse Jones è un profeta, un messia: è l'uomo che promette - anzi, che sa - che il cielo è pieno, che risveglia i sogni e l'idealismo (e con questi, i fanatismi e le guerre).
E il cielo è pieno, ma non di quello che ci si aspettava. Non della razza umana.
Anche nella sua sconfitta, Jones vince, s'immola, e il martirio lo consacra ad una divinità per i posteri - ma, in un certo senso, egli ha già perso in partenza: è uno spettatore impotente, ha fatto ciò che ha fatto senza conoscerne le (devastanti) conseguenze solo perché non poteva non farlo, anzi, solo perché l'aveva già fatto.

Pubblicato nel 1956, E Jones creò il mondo (The world Jones made) risente chiaramente degli eventi della seconda guerra mondiale. Jones e i suoi seguaci, con le divise grigie, le fasce al braccio, i loro simboli e il loro delirio di conquista, sono la trasposizione fedele di Hitler e del nazismo. A differenza che in La svastica sul sole (The man in the high castle, 1962) qui non si tratta di uno sviluppo alternativo della storia, quanto piuttosto di una sua ripetizione quasi farsesca - i due romanzi hanno comunque molti elementi in comune: primo tra tutti il tema della predestinazione.

Come sempre, Philip K. Dick è bravissimo nel creare le atmosfere e nell'immaginare le situazioni, gli equilibri, di possibili società future - e, come sempre, è molto convincente anche nella caratterizzazione dei personaggi e nella scrittura dei dialoghi.
Qui, a differenza che in altri suoi romanzi, anche la trama appare più solida e gli sviluppi narrativi sono più controllati (e non eccessivamente farraginosi) - impresa che, a mio giudizio, non sempre gli riesce.
Anche se non manca qualche piccola incongruenza e il finale è un pò affrettato, E Jones creò il mondo, è un eccellente romanzo che ripropone temi sempre attuali.

Dick, E Jones creò il mondo

«Lui annuì. "Suppongo che il Relativismo sia cinico. Sicuramente non è idealista. E' il punto di arrivo di chi è stato ucciso, ferito, ridotto in miseria e a lavorare duramente per le vuote parole. E' il prodotto delle generazioni che gridavano slogan, marciavano con le vanghe e le armi, cantavano e scandivano inni patriottici, rendevano omaggio alle bandiere"
"Ma voi le sbattete in prigione. Queste persone che non sono d'accordo con voi - non permettete loro di dissentire..guarda il ministro Jones"

"Jones può benissimo dissentire. Può credere a quello che vuole; può credere che la terra è piatta, che Dio è una cipolla, che i bambini nascono nelle buste di plastica. Può avere l'opinione che preferisce; ma quando comincia a spacciarla per Verità Assoluta..."

"Lo sbattete in prigione" disse Nina rigida.

"No" la corresse Cussick. "Tediamo la mano, diciamo semplicemente: dimostra o stai zitto. Conforta i fatti quello che vai dicendo. Se vuoi dire che gli ebrei sono la radice di tutti i mali - devi provarlo. Lo puoi dire se riesci a dimostrarlo. Altrimenti, fila ai lavori forzati...
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Dopo una devastante terza guerra mondiale, il potere è assunto dal Govfed (il Governo Mondiale Federale) che s' ispira all'ideologia politica e morale del Relativismo, così come esposto nel libro di Hoff.
Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie opinioni, a vivere secondo il loro personale codice etico, fino a quando non pretendano di contestare il Relativismo, di spacciare le loro preferenze per la verità assoluta.
Il Govfed si regge tutto sul fragile equilibrio di un paradosso: per il relativismo la verità assoluta non esiste - ma questa è una verità assoluta, che, come tale, inficia il relativismo. Si tratta della nota consequentia mirabilis, con cui già Paltone aveva confutato la dottrina di Protagora nel Teeteto: se il relativismo è vero, allora il relativismo è falso - se fosse vero che tutto è relativo, allora ciò sarebbe assoluto.

E questo fragile equilibrio si spezza all'apparire di Jones: perchè Jones sa la verità, Jones conosce il futuro, Jones è in grado di vedere un anno avanti agli altri.
Dal suo punto di vista, in realtà, Jones è schiavo del passato, costretto a rivivere ogni anno due volte, è un burattino che non ha alcun potere di modificare gli eventi: non può che ripetere ciò che ha già fatto e che non poteva non fare - e questa è una delle tante geniali intuizione di Dick: se il futuro è già scritto, il presente è già passato e un preveggente, come Jones, non è che una figura patetica costretta ad assistere due volte ad ogni evento, senza mai poter incidere su esso.

Ma per le masse Jones è un profeta, un messia: è l'uomo che promette - anzi, che sa - che il cielo è pieno, che risveglia i sogni e l'idealismo (e con questi, i fanatismi e le guerre).
E il cielo è pieno, ma non di quello che ci si aspettava. Non della razza umana.
Anche nella sua sconfitta, Jones vince, s'immola, e il martirio lo consacra ad una divinità per i posteri - ma, in un certo senso, egli ha già perso in partenza: è uno spettatore impotente, ha fatto ciò che ha fatto senza conoscerne le (devastanti) conseguenze solo perché non poteva non farlo, anzi, solo perché l'aveva già fatto.

Pubblicato nel 1956, E Jones creò il mondo (The world Jones made) risente chiaramente degli eventi della seconda guerra mondiale. Jones e i suoi seguaci, con le divise grigie, le fasce al braccio, i loro simboli e il loro delirio di conquista, sono la trasposizione fedele di Hitler e del nazismo. A differenza che in La svastica sul sole (The man in the high castle, 1962) qui non si tratta di uno sviluppo alternativo della storia, quanto piuttosto di una sua ripetizione quasi farsesca - i due romanzi hanno comunque molti elementi in comune: primo tra tutti il tema della predestinazione.

Come sempre, Philip K. Dick è bravissimo nel creare le atmosfere e nell'immaginare le situazioni, gli equilibri, di possibili società future - e, come sempre, è molto convincente anche nella caratterizzazione dei personaggi e nella scrittura dei dialoghi.
Qui, a differenza che in altri suoi romanzi, anche la trama appare più solida e gli sviluppi narrativi sono più controllati (e non eccessivamente farraginosi) - impresa che, a mio giudizio, non sempre gli riesce.
Anche se non manca qualche piccola incongruenza e il finale è un pò affrettato, E Jones creò il mondo, è un eccellente romanzo che ripropone temi sempre attuali.

mercoledì 13 febbraio 2008

pdl su google

Ecco il primo sito ufficiale di partito che compare se si ricerca su google pdl

La libertà dei cirbernauti?

Ringrazio zack per la segnalazione.

E, se qualcuno non se ne fosse accorto, è iniziata la campagna elettorale, le alternative sono deprimenti, evitare il peggio sembrerebbe l'unica opzione accettabile - ovviamente, ognuno ha la sua opinione su cosa sia peggio, ma il web offre a tutti l'occasione per poterne discutere, per dare un minimo di concretezza all'ideale della democrazia partecipativa -
ancora ci credo e il fatto che ci siano fazioni politiche che non hanno capito (o non mostrano un minimo di considerazione per) il net, o la sua capacità di catalizzazione sociale, lungi dal scoraggiarmi, mi fa sperare. La speranza, si sa, è l'ultima a morire.

pdl su google

Ecco il primo sito ufficiale di partito che compare se si ricerca su google pdl

La libertà dei cirbernauti?

Ringrazio zack per la segnalazione.

E, se qualcuno non se ne fosse accorto, è iniziata la campagna elettorale, le alternative sono deprimenti, evitare il peggio sembrerebbe l'unica opzione accettabile - ovviamente, ognuno ha la sua opinione su cosa sia peggio, ma il web offre a tutti l'occasione per poterne discutere, per dare un minimo di concretezza all'ideale della democrazia partecipativa -
ancora ci credo e il fatto che ci siano fazioni politiche che non hanno capito (o non mostrano un minimo di considerazione per) il net, o la sua capacità di catalizzazione sociale, lungi dal scoraggiarmi, mi fa sperare. La speranza, si sa, è l'ultima a morire.

Hirsi Ali, Infedele


Infedele di Ayaan Hirsi Ali è un'autobiografia avvincente e interessante - due qualità rare in questo genere letterario, perché parlare di sè e della propria vita non è mai semplice, ma Hirsi Ali riesce a farlo in modo coinvolgente, con una scrittura asciutta ed essenziale.

Cresciuta tra la Somalia, l'Arabia Saudita, l'Etiopia e il Kenya, nel 1992 Ayaan Hirsi Magan giunge a Francoforte, in attesa di un visto per il Canada, dove avrebbe dovuto congiungersi con l'uomo che suo padre le aveva fatto sposare. E invece fugge in Olanda, dove ottiene lo status di rifugiato politico col nome di Ayaan Hirsi Ali e dove 10 anni dopo verrà eletta in parlamento.

Un ritratto vivido della società africana e in particolare, di quella somala, con la sua rigida organizzazione per clan, la sua segregazione sessuale, il suo sincretismo religioso progressivamente soppiantato da un islam più radicale e intransigente.

Non mancano aspetti controvertibili.
Innanzitutto, mi sembra altamente discutibile l'atteggiamente di Hirsi Ali nei confronti degli attetanti terroristici e, in particolare, di quelli dell'11 settembre, visti esclusivamente come atti di fede: come la manifestazioni dell'essenza di una religione, l'Islam, votata alla violenza e allo sterminio degli infedeli - quasi che non avessero anche un valore politico e di rivolta sociale (ipotesi queste che Hirsi Ali scarta come frutto di ignoranza sulla realtà del mondo islamico - così, forse, confondendo esperienza e conoscenza: due concetti che non necessariamente viaggiano in tandem).

Hirsi Ali è poi estremamente critica nei confronti della politica multiculturalista olandese che, finanziando le istituzioni culturali e religiose islamiche, consente alla comunità mussulmana di vivere separatamente, rifiutando ogni integrazione con la società occidentale, e perpetrando abusi, violenze e discriminazioni contro donne e ragazze.
Si tratta di un problema reale e drammatico: fino a che punto tollerare gli intolleranti?
L'atteggiamento dell'autrice, però, appare un pò troppo semplicistico: nella sua vita passa (non senza drammi e crisi di coscienza) dall'intolleranza dell'integralista islamica all'intolleranza contro gli islamici - embrambe accomunate dallo stesso atteggiamento di fondo: quello di chi, convinto di posseder una verità morale, vuole imporre i propri valori a tutti coloro che non li condividono.

Intendiamoci: non tutti i valori stanno sullo stesso piano, non tutti sono ugualmente condivisibili e, soprattutto, violenze e mutilazioni non sono valori affatto, bensì reati.
Tuttavia c'è una bella differenza tra il voler proibire atti criminali e il condannare in toto la cultura islamica.

Ciò che più impressiona nei racconti di Hirsi Ali è la totale mancanza del senso dell'ingiustia, specie da parte dei soggetti oppressi - proprio le donne sono le prime a perpetrare atteggiamenti sessisti e di intransigenza religiosa: vittime e carnefici di una società che non conosce alcuna eguaglianza, che isola e abbandona chiunque devii dalla morale dominante o che, semplicemente, cada vittima della violenza altrui.
Sotto questo profilo non si può che appoggiare l'impegno di Hirsi Ali a favore di una campagna diretta alla presa di coscienza delle donne islamiche (senza dimenticare, però, che queste non rappresentano certo l'unico gruppo femminile vittima di discriminazioni).

L'infedele ha vinto il libro d'oro 2007 - onestamente, pur considerandolo una lettura piacevole e istruttiva, non mi sento però di condividere il parere entusiastico di Teoz (Matteo Z).

Hirsi Ali, Infedele


Infedele di Ayaan Hirsi Ali è un'autobiografia avvincente e interessante - due qualità rare in questo genere letterario, perché parlare di sè e della propria vita non è mai semplice, ma Hirsi Ali riesce a farlo in modo coinvolgente, con una scrittura asciutta ed essenziale.

Cresciuta tra la Somalia, l'Arabia Saudita, l'Etiopia e il Kenya, nel 1992 Ayaan Hirsi Magan giunge a Francoforte, in attesa di un visto per il Canada, dove avrebbe dovuto congiungersi con l'uomo che suo padre le aveva fatto sposare. E invece fugge in Olanda, dove ottiene lo status di rifugiato politico col nome di Ayaan Hirsi Ali e dove 10 anni dopo verrà eletta in parlamento.

Un ritratto vivido della società africana e in particolare, di quella somala, con la sua rigida organizzazione per clan, la sua segregazione sessuale, il suo sincretismo religioso progressivamente soppiantato da un islam più radicale e intransigente.

Non mancano aspetti controvertibili.
Innanzitutto, mi sembra altamente discutibile l'atteggiamente di Hirsi Ali nei confronti degli attetanti terroristici e, in particolare, di quelli dell'11 settembre, visti esclusivamente come atti di fede: come la manifestazioni dell'essenza di una religione, l'Islam, votata alla violenza e allo sterminio degli infedeli - quasi che non avessero anche un valore politico e di rivolta sociale (ipotesi queste che Hirsi Ali scarta come frutto di ignoranza sulla realtà del mondo islamico - così, forse, confondendo esperienza e conoscenza: due concetti che non necessariamente viaggiano in tandem).

Hirsi Ali è poi estremamente critica nei confronti della politica multiculturalista olandese che, finanziando le istituzioni culturali e religiose islamiche, consente alla comunità mussulmana di vivere separatamente, rifiutando ogni integrazione con la società occidentale, e perpetrando abusi, violenze e discriminazioni contro donne e ragazze.
Si tratta di un problema reale e drammatico: fino a che punto tollerare gli intolleranti?
L'atteggiamento dell'autrice, però, appare un pò troppo semplicistico: nella sua vita passa (non senza drammi e crisi di coscienza) dall'intolleranza dell'integralista islamica all'intolleranza contro gli islamici - embrambe accomunate dallo stesso atteggiamento di fondo: quello di chi, convinto di posseder una verità morale, vuole imporre i propri valori a tutti coloro che non li condividono.

Intendiamoci: non tutti i valori stanno sullo stesso piano, non tutti sono ugualmente condivisibili e, soprattutto, violenze e mutilazioni non sono valori affatto, bensì reati.
Tuttavia c'è una bella differenza tra il voler proibire atti criminali e il condannare in toto la cultura islamica.

Ciò che più impressiona nei racconti di Hirsi Ali è la totale mancanza del senso dell'ingiustia, specie da parte dei soggetti oppressi - proprio le donne sono le prime a perpetrare atteggiamenti sessisti e di intransigenza religiosa: vittime e carnefici di una società che non conosce alcuna eguaglianza, che isola e abbandona chiunque devii dalla morale dominante o che, semplicemente, cada vittima della violenza altrui.
Sotto questo profilo non si può che appoggiare l'impegno di Hirsi Ali a favore di una campagna diretta alla presa di coscienza delle donne islamiche (senza dimenticare, però, che queste non rappresentano certo l'unico gruppo femminile vittima di discriminazioni).

L'infedele ha vinto il libro d'oro 2007 - onestamente, pur considerandolo una lettura piacevole e istruttiva, non mi sento però di condividere il parere entusiastico di Teoz (Matteo Z).

domenica 10 febbraio 2008

Villa, Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore

vittorio villa

Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore di Vittorio Villa (professore presso l'Università di Palermo) costituisce un eccellente manuale (scorrevole, interessante e approfondito) di filosofia del diritto - anche se l'espressione 'manuale' in questo caso è un pò riduttiva, in quanto Villa non si limita certo a riportare teorie altrui, ma, al contrario, interviene direttamente nei dibattiti in corso, sviluppando e argomentando proprie tesi.

Tra i contributi più significativi e originali ne ricordo tre, attinenti, rispettivamente, al concetto di positivismo giuridico, al concetto di filosofia analitica e all'interpretazione giuridica.

L'intento di Villa è quello di fornire delle definizioni concettuali di 'positivismo giuridico' e 'filosofia analitica' (due filoni di ricerca cui egli espressamente aderisce), ossia delle definizioni che esplicitino e ricostruiscano le "aree solide", le assunzioni e le credenze, di carattere sostanziale o semantico, condivise e presupposte da tutte le diverse concezioni.

La definizione concettuale di 'positivismo giuridico' proposta da Villa, mi pare particolarmente convincente. Per Villa il concetto di positivismo giuridico si articola in due tesi. Secondo la tesi ontologica "tutti i fenomeni che posso essere qualificati, in senso lato, come 'giuridici' [...] non possono che rappresentare istanze di diritto positivo, e cioè di un diritto che rappresenta il prodotto normativo [...] di tipo convenzionale [...] di decisioni e/o comportamenti umani storicamente contingenti" (p. 29). Secondo la tesi metodologica "rendere conto [...] del diritto del diritto positivo è, per lo studioso del diritto, attività completamente diversa [...] rispetto a quella che si concreta in una presa di posizione (positiva o negativa, di accettazione o di rifiuto) nei suoi confronti" (p. 29).

Secondo Villa un corollario della tesi ontologica è costituito dalla tesi della separabilità: se, infatti "si condivide la tesi secondo cui il diritto è frutto di decisioni contingenti, allora bisogna anche condividere, come sua necessaria implicazione, quell'altra tesi secondo cui non vi può essere alcun contenuto giuridico necessario, e dunque a fortiori alcun contenuto etico necessario" (p. 31).
Quest'ultima implicazione, però, non mi pare condivisa da tutte le concezioni del giuspositivismo: se non vi è alcun contenuto giuridico necessario, ciò significa non solo che non è necessario che il diritto incorpori la morale, ma anche che non è necessario che il diritto non incorpori la morale (ossia che il diritto può contingentemente incorporare la morale). Quest'ultima assunzione palesemente non è condivisa dal positivismo giuridico esclusivo.

Secondo Villa il nocciolo comune a tutte le concezioni della filosofia analitica consiste nell'assunzione secondo cui "fa parte dell'essenza del pensiero essere comunicabile senza residui attraverso il linguaggio", il linguaggio è "il veicolo necessario del pensiero" (p. 111).
Questa certamente è un'assunzione condivisa da tutti gli analitici, ma mi chiedo se non sia un'assunzione troppo debole, che potrebbe essere fatta propria anche da studiosi che non si richiamano affatto all'area analitica.

Infine, rispetto al tema dell'interpretazione giuridica, Villa propone una concezione pragmaticamente orientata, con cui mi trovo in completo accordo. Vorrei, però, sollevare qualche perplessità sulla tesi della priorità logica del significato convenzionale rispetto al significato contestuale (p. 217), il quale, comunque, costituisce per Villa l'esito finale del processo interpretativo.
Se si aderisce (come Villa) alla tesi secondo cui il significato è l'uso, allora pare evidente che conoscere il significato di un termine consiste nel sapere come usarlo in contesti tipici ossia nel conoscere i suoi usi tipici, nel sapere in quali contesti normalmente si impiega. Il significato convenzionale non è altro che il significato in contesti tipici, il significato contestuale tipico - così quelli registrati in qualsiasi dizionario non sono che gli usi tipici delle parole.
Ma, allora, il significato convenzionale non è affatto prioritario: né in senso temporale, in quanto deriva dagli usi (dai significati contestuali più frequenti) né in senso logico perché conoscere il significato convenzionale è conoscere il significato contestuale tipico.

Intendiamoci, queste osservazioni non inficiano certo la tesi complessiva di Villa e il modo in cui egli delinea il processo interpretativo, ma, semmai, ne costituiscono una specificazione, a mio giudizio, più conforme alla tesi secondo cui il significato è l'uso e immune da tutte le obiezioni che potrebbero sollevarsi contro la nozione di significato convenzionale quale significato semantico-sintattico acontestuale. Il significato convenzionale, anche se inteso come significato contestuale tipico, va, infatti, distinto dal significato contestuale atipico e l'interazione tra queste due nozioni nel processo interpretativo può configurarsi esattamente nei termini individuati da Villa.

Villa, Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore

vittorio villa

Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore di Vittorio Villa (professore presso l'Università di Palermo) costituisce un eccellente manuale (scorrevole, interessante e approfondito) di filosofia del diritto - anche se l'espressione 'manuale' in questo caso è un pò riduttiva, in quanto Villa non si limita certo a riportare teorie altrui, ma, al contrario, interviene direttamente nei dibattiti in corso, sviluppando e argomentando proprie tesi.

Tra i contributi più significativi e originali ne ricordo tre, attinenti, rispettivamente, al concetto di positivismo giuridico, al concetto di filosofia analitica e all'interpretazione giuridica.

L'intento di Villa è quello di fornire delle definizioni concettuali di 'positivismo giuridico' e 'filosofia analitica' (due filoni di ricerca cui egli espressamente aderisce), ossia delle definizioni che esplicitino e ricostruiscano le "aree solide", le assunzioni e le credenze, di carattere sostanziale o semantico, condivise e presupposte da tutte le diverse concezioni.

La definizione concettuale di 'positivismo giuridico' proposta da Villa, mi pare particolarmente convincente. Per Villa il concetto di positivismo giuridico si articola in due tesi. Secondo la tesi ontologica "tutti i fenomeni che posso essere qualificati, in senso lato, come 'giuridici' [...] non possono che rappresentare istanze di diritto positivo, e cioè di un diritto che rappresenta il prodotto normativo [...] di tipo convenzionale [...] di decisioni e/o comportamenti umani storicamente contingenti" (p. 29). Secondo la tesi metodologica "rendere conto [...] del diritto del diritto positivo è, per lo studioso del diritto, attività completamente diversa [...] rispetto a quella che si concreta in una presa di posizione (positiva o negativa, di accettazione o di rifiuto) nei suoi confronti" (p. 29).

Secondo Villa un corollario della tesi ontologica è costituito dalla tesi della separabilità: se, infatti "si condivide la tesi secondo cui il diritto è frutto di decisioni contingenti, allora bisogna anche condividere, come sua necessaria implicazione, quell'altra tesi secondo cui non vi può essere alcun contenuto giuridico necessario, e dunque a fortiori alcun contenuto etico necessario" (p. 31).
Quest'ultima implicazione, però, non mi pare condivisa da tutte le concezioni del giuspositivismo: se non vi è alcun contenuto giuridico necessario, ciò significa non solo che non è necessario che il diritto incorpori la morale, ma anche che non è necessario che il diritto non incorpori la morale (ossia che il diritto può contingentemente incorporare la morale). Quest'ultima assunzione palesemente non è condivisa dal positivismo giuridico esclusivo.

Secondo Villa il nocciolo comune a tutte le concezioni della filosofia analitica consiste nell'assunzione secondo cui "fa parte dell'essenza del pensiero essere comunicabile senza residui attraverso il linguaggio", il linguaggio è "il veicolo necessario del pensiero" (p. 111).
Questa certamente è un'assunzione condivisa da tutti gli analitici, ma mi chiedo se non sia un'assunzione troppo debole, che potrebbe essere fatta propria anche da studiosi che non si richiamano affatto all'area analitica.

Infine, rispetto al tema dell'interpretazione giuridica, Villa propone una concezione pragmaticamente orientata, con cui mi trovo in completo accordo. Vorrei, però, sollevare qualche perplessità sulla tesi della priorità logica del significato convenzionale rispetto al significato contestuale (p. 217), il quale, comunque, costituisce per Villa l'esito finale del processo interpretativo.
Se si aderisce (come Villa) alla tesi secondo cui il significato è l'uso, allora pare evidente che conoscere il significato di un termine consiste nel sapere come usarlo in contesti tipici ossia nel conoscere i suoi usi tipici, nel sapere in quali contesti normalmente si impiega. Il significato convenzionale non è altro che il significato in contesti tipici, il significato contestuale tipico - così quelli registrati in qualsiasi dizionario non sono che gli usi tipici delle parole.
Ma, allora, il significato convenzionale non è affatto prioritario: né in senso temporale, in quanto deriva dagli usi (dai significati contestuali più frequenti) né in senso logico perché conoscere il significato convenzionale è conoscere il significato contestuale tipico.

Intendiamoci, queste osservazioni non inficiano certo la tesi complessiva di Villa e il modo in cui egli delinea il processo interpretativo, ma, semmai, ne costituiscono una specificazione, a mio giudizio, più conforme alla tesi secondo cui il significato è l'uso e immune da tutte le obiezioni che potrebbero sollevarsi contro la nozione di significato convenzionale quale significato semantico-sintattico acontestuale. Il significato convenzionale, anche se inteso come significato contestuale tipico, va, infatti, distinto dal significato contestuale atipico e l'interazione tra queste due nozioni nel processo interpretativo può configurarsi esattamente nei termini individuati da Villa.

venerdì 8 febbraio 2008

Grice: bibliografia provvisoria




Le implicatura conversazionali del discorso normativo: bibliografia provvisoria



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