sabato 28 novembre 2009

Faletti, Io uccido


Ero curiosa di leggere un libro che ha venduto milioni di copie (più di 4 milioni di copie!), ma, onestamente, non credevo che mi sarebbe piaciuto - un po' perché il genere thriller non mi appassiona e un po', devo ammetterlo, proprio perché aveva venduto milioni di copie.
Non si tratta (solo) di snobbismo: il sospetto verso la "letteratura di massa" - come verso il "cinema di massa", quello che guardano tutti, Vacanze di Natale, per intenderci - è, a mio giudizio, perfettamente legittimo.

E poi Giorgio Faletti mi è anche antipatico - mi era simpatico, quando parlava di giumbotti e impersonava Vito Catozzo, mi è antipatico adesso che gira spot a favore del copyright - non è solo che ha un'opinione diversa dalla mia: è che la sua è sbagliata e bisogna proprio essere superficiali o, peggio, avidi, per non capire che il copyright sta uccidendo la diffusione della cultura.

Insomma ho letto Io uccido animata dai peggiori pregiudizi, e mi è piaciuto. E' proprio un bel thriller: una scrittura scorrevole, una struttura narrativa solida, una trama ben costruita, personaggi azzeccati e convincenti - suggestiva e originale anche l'ambientazione a Monte Carlo.
Decisamente più avvicente e, soprattutto, meglio cogegnato dell'unico altro romanzo thriller che ho letto - Bikini, di cui è coautore il tanto acclamato Patterson. In Io uccidio tutto si tiene, gli ingranaggi narrativi funzionano alla perfezione e non ci sono deus ex machina o altri bizzarri espedienti per risolvere la trama.

Per non dismettere del tutto il mio intento polemico, segnalo però due tratti del romanzo che non mi sono piaciuti - difetti che, comunque, mi sembrano perdonabili in un'opera prima.

Specie nella prima parte, la lettura è un po' appesantita dall'abuso di metafore - non metafore illuminanti, ma quasi-luoghi comuni travestiti da luoghi letterari.

E oltre all'abuso di metafore, c'è anche un abuso di scalogne - insomma, passi che il serial killer ha avuto un'infanzia difficile, ma anche gli altri personaggi - tra morti, incesti e violenze - sono un serbatoio di sfighe non da poco.

domenica 8 novembre 2009

Coe, La famiglia Winshaw

La famiglia Winshaw (1994, titolo originale: What a carve up!, che, non a caso, è anche il titolo originale del film Sette allegri cadaveri) di Jonathan Coe è un autentico capolavoro, che è difficile descrivere nel ristretto spazio di un blog.

E' la storia dei membri di una prestigiosa e potente famiglia britannica - banchieri, politici, critici d'arte, opinionisti, trafficanti d'armi, allevatori intensivi ed industriali - una schiera di mostri: avidi e cinici sciacalli che prosperano nell'Inghilterra thatcheriana così come sempre hanno prosperato, ai danni di tutte le classe meno agiate, ai danni di chiunque si frapponga tra loro e il denaro. E' la storia del loro biografo, Michael Owen, uno scrittore lievemente borderline, ossesionato dal cinema, anzi, da un film in particolare, e con una travagliata storia familiare alle spalle. E' una denuncia sociale sull'egoismo e la miopia delle "classi dirigenti", sui danni provocati dalle riforme sanitarie liberali. E' un giallo ad incastri, stupendamente congegnato. A tratti riesce ad essere esilarante, come un libro comico. Nell'ultima parte, è anche un romanzo horror.

Una struttura narrativa unica, un romanzo dalle molteplici letture, costruito su molteplici livelli impiegando i più diversi registri stilistici. Eppure compatto come un puzzle finito. Pieno di brio. Decisamente il libro più bello che ho letto quest'anno.