venerdì 28 dicembre 2007

nell'inferno di Guantanamo


A prayer for the wild at heart, kept in cages

Tennesse Williams











Inaugurato nel 2001, il carcere speciale di Guantanamo è uno spazio vuoto di diritto in cui
sono detenuti senza legittimo processo e a tempo indeterminato, quanti sono sospettati
di essere combattenti nemici - definizione estranea al diritto internazionale, elaborata per eludere l'applicazione della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra (12 agosto 1949).

La Corte Suprema americana, nei casi Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla e Rasul v. Bush, ha affermato il diritto dei cittadini americani e dei cittadini di stati stranieri non in guerra con gli U.S., detenuti come combattenti nemici, di proporre ricorso alle corti distrettuali.
In particolare, secondo la Corte, benché il Congresso abbia autorizzato il Presidente all’uso della forza ed anche alla cattura di prigionieri, la detenzione non può essere indefinita, soprattutto una volta che si siano concluse le operazioni militari.

L'importanza di queste decisioni non va certo sottovalutata: esse riaffermano con forza il carattere garantista della tradizione giuridica statunitense ed aprono uno spiraglio di salvezza per molti detenuti. Resta il fatto che gli atti compiuti a Guantanamo sono sottratti a qualsiasi giurisdizione: i carcerieri possono disporre arbitrariamente degli internati, che non hanno alcuna garanzia di sorta - nulla di più drammaticamente vicino al concetto di nuda vita.

Le organizzazioni umanitarie hanno denunciato più volte in questi anni il trattamento inumano e degradante cui sono sottoposti i prigionieri: le torture, le violenze, gli abusi, i ripetuti tentativi di suicidio.

Tutto ciò conferma una vecchia tesi sostenuta da Bobbio ne L'età dei diritti: il problema oggi non è quello di dichiarare o fondare i diritti umani, quanto piuttosto di garantirne il rispetto e l'effettività, soprattutto nei confronti dei potenti, degli stati più forti.
L'universalità dei diritti sarà effettivamente tale solo quando nessuno si arrogherà più il potere sovrano di decidere sullo stato di eccezione: ossia sui casi in cui un dato diritto non si applica, su chi è prigioniero di guerra e chi combattente nemico.


alcuni link correlati
chiudere guantanamo
il caso di
Sami Al-Hajj
prigionieri di Guantanamo di Michael Ratner e Ellen Ray
human rights watch
road to Guantanamo

nell'inferno di Guantanamo


A prayer for the wild at heart, kept in cages

Tennesse Williams











Inaugurato nel 2001, il carcere speciale di Guantanamo è uno spazio vuoto di diritto in cui
sono detenuti senza legittimo processo e a tempo indeterminato, quanti sono sospettati
di essere combattenti nemici - definizione estranea al diritto internazionale, elaborata per eludere l'applicazione della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra (12 agosto 1949).

La Corte Suprema americana, nei casi Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla e Rasul v. Bush, ha affermato il diritto dei cittadini americani e dei cittadini di stati stranieri non in guerra con gli U.S., detenuti come combattenti nemici, di proporre ricorso alle corti distrettuali.
In particolare, secondo la Corte, benché il Congresso abbia autorizzato il Presidente all’uso della forza ed anche alla cattura di prigionieri, la detenzione non può essere indefinita, soprattutto una volta che si siano concluse le operazioni militari.

L'importanza di queste decisioni non va certo sottovalutata: esse riaffermano con forza il carattere garantista della tradizione giuridica statunitense ed aprono uno spiraglio di salvezza per molti detenuti. Resta il fatto che gli atti compiuti a Guantanamo sono sottratti a qualsiasi giurisdizione: i carcerieri possono disporre arbitrariamente degli internati, che non hanno alcuna garanzia di sorta - nulla di più drammaticamente vicino al concetto di nuda vita.

Le organizzazioni umanitarie hanno denunciato più volte in questi anni il trattamento inumano e degradante cui sono sottoposti i prigionieri: le torture, le violenze, gli abusi, i ripetuti tentativi di suicidio.

Tutto ciò conferma una vecchia tesi sostenuta da Bobbio ne L'età dei diritti: il problema oggi non è quello di dichiarare o fondare i diritti umani, quanto piuttosto di garantirne il rispetto e l'effettività, soprattutto nei confronti dei potenti, degli stati più forti.
L'universalità dei diritti sarà effettivamente tale solo quando nessuno si arrogherà più il potere sovrano di decidere sullo stato di eccezione: ossia sui casi in cui un dato diritto non si applica, su chi è prigioniero di guerra e chi combattente nemico.


alcuni link correlati
chiudere guantanamo
il caso di
Sami Al-Hajj
prigionieri di Guantanamo di Michael Ratner e Ellen Ray
human rights watch
road to Guantanamo

giovedì 27 dicembre 2007

Tolstòj, Guerra e pace


tolstoj
"tutte queste cause - miliardi di cause - dovettero concomitare per produrre ciò che avvenne. E di conseguenza, nulla fu causa unica ed esclusiva dell'avvenimento, ma l'avvenimento si compì unicamente perché doveva compiersi"



Le vite di alcuni nobili russi si intrecciano sullo sfondo degli avvenimenti che sconvolsero l'Europa tra il 1805 e il 1813 (con un epilogo intorno al 1820).


In
Guerra e pace, Tolstòj è magistrale sia nel delineare le psicologie individuali sia nell'orchestrare le scene corali.
I protagonisti del romanzo hanno caratteri complessi, una personalità sfaccettata che cambia, evolve, nel corso della narrazione, pur mantendendo la propria individualità.
So di esprimere un'opinione controcorrente, ma personalmente li ho trovati tutti piuttosto antipatici e mi sono spesso chiesta se Tolstòj li abbia tratteggiati così volontariamente o se, come è più probabile, siano semplicemente troppo distanti dalla sensibilità moderna.

Prendiamo quella che viene notoriamente etichettata come una delle figure più positive: il principe Andréj.
All'inizio del romanzo il principe Andréj è un nobile annoiato dall'alta società, sposato con una donna che non ama, che insegue sogni di gloria militare e per poco non riesce a farsi ammazzare in un inutile atto di eroismo. Con la morte della moglie, si deprime, si allontana da tutti gli incarichi e dai salotti, si rintana in campagna, dedicandosi solo all'amministrazione delle sue proprietà. Poi s'innamora di Nataša, ma non ci pensa nemmeno a sposarla contro il volere del padre, dilaziona, alla fine lei lo tradisce e lui, nuovamente, sprofonda nella depressione, ma questa volta decide di arruolarsi, senza inseguire più alcun sogno di gloria, anzi senza inseguire alcun sogno affatto.
Prima della battaglia di Borodinò troviamo un uomo cupo, arrabbiato, che odia la guerra, ma che vorrebbe non far prigionieri, bere il calce fino infondo.
Solo nell'agonia e nel nuovo incontro con Nataša, Andréj sembra trovare un barlume di umanità, di dolcezza, ma dura poco: con l'avvicinarsi della morte diventa un estraneo, si distacca da tutte le faccende terrene, di cui ormai non gli importa più nulla.

Qui è il sentimento religioso di Tolstòj ad emergere: un sentimento omnipresente che impernia tutta la narrazione e le vicende spirituali dei protagonisti (non solo del principe Andréj, ma anche e soprattutto di Pierre e della principessina Màr'ja). In modo per niente velato, Tolstòj addita la salvezza e il senso della vita nell'amore evangelico e nell'abbandono a dio - annoiando o infastidendo un pò il lettore ateo o laico.
Al riguardo non si può che condividere il giudizio di Turgenev che, pur apprezzando il romanzo, ne aveva però censurato l'eccessivo "filosofeggiare da autodidatta".

Le scene di massa sono splendide, Tolstòj riesce a far immergere il lettore nell'atmosfera delle feste moscovite e pietroburghesi, nelle conversazioni dei salotti, nella concitazione di una caccia alla volpe e, soprattutto, nel caos, nella ressa, nella paura e nel fumo delle battaglie e delle manovre militari. La guerra è per Tolstòj l'elemento su cui articolare e comprobare la sua filosofia della storia - come se una filosofia della storia si potesse in qualche modo verificare.

Per Tolstòj le vicende umane non sono casuali né dirette da singoli individui: a suo giudizio, la volontà individuale (quella dei "grandi eroi storici", di Napoleone, di Alessandro I, di Kutùzov e di tutti i generali) è assolutamente irrilevante rispetto sorti della storia, così come lo è rispetto all'esito di una battaglia.
Il romanzo è caldamente raccomandato a tutti gli appasionati di battaglie storiche: Tolstòj ha cura di mostrare, in modo ossessivo, se non estenuante, ricorrendo perfino a disegni, come tutti i piani militari, tutte le strategie riportate sui libri, furono sempre, costantemente, disattesi, in quando assolutamente inattuabili. Ciò, invero, principalmente per le scarse conoscenze topografiche e la difficoltà nelle comunicazioni, ma Tolstòj ne trae conseguenze ben più generali. A suo giudizio, i singoli individui non hanno alcun potere di influenza e non decidono alcunché: ciò che succede non poteva non succedere. Tutto è necessario.
Nella seconda parte dell'epilogo, Tolstòj torna - in modo pedante e didascalico - a ribadire la propria visione della storia (casomai al lettore non fossero bastate le 1830 pagine precedenti per farsi un'idea) e tenta anche un difficile connubio tra la necessità e il libero arbitrio: un tentativo che, però, sembra fallire, dal momento che la libertà si riduce soltanto ad un deficit epistemico - "ciò che ci è noto lo chiamiamo: leggi della necessità; e ciò che ci è ignoto: libertà"

Non stupisce che da questo romanzo sia stata tratta una fiction tv: la trama vi si presta tantissimo. I personaggi si incontrano in continuazione, nemmeno la Russia fosse un paesino, e le loro vicende continuano ad annodarsi tra feste, amori, duelli e battaglie.
La critica sociale poi è del tutto assente: i protagonisti sono tutti nobili e i muzikì, contadini e servi della gleba (in Russia la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861 da Alessandro II), sono o briganti criminali oppure servitori buoni e affezionati ai loro padroni (talvolta, come il servo di Pierre, rifiutano persino la libertà perché preferiscono continuare a servire fedelmente il loro bàrin), o, ancora, come Karatàev incarnano addirittura lo spirito russo - e lo spirito russo, per Tolstòj, è lo spirito dell'uomo animato da amore cristiano che ha compreso per istinto la necessità di ogni avvenimento e china mansueto il capo al volere della provvidenza.

E' interessante come molti romanzieri russi dell'800 parlino di spirito russo, e lo interpretino in modi così distanti - basti pensare a quello che lo spirito russo è per Dostoevskij. L'affiorare di uno spirito nazionalista viene spesso collegato a un sentimento di inferiorità e, in effetti, ciò che colpisce nella società nobiliare russa descritta da Tolstòj è proprio l'atmosfera francofila, l'ammirazione per i valori liberali e per la stessa figura di Buonaparte - estremamente divertente il racconto di come, dopo l'invasione di Napoleone, in molti salotti il francese sia messo al bando e i nobili russi si trovino in chiara difficoltà ad esprimersi nella loro lingua o siano addirittura costretti a prendere lezioni per impararla.

Uno degli aspetti più interessanti è proprio l'immagine della società russa che filtra dalle pagine del romanzo - le abitudini, i riti domestici, la condizione femminile e quella dei servi della gleba, lo stato della "scienza medica", le condizioni dell'esercito o degli ospedali (cui i soldati feriti preferivano saggiamente il fronte, dove, per lo meno, la morte non era certa).



Tolstòj, Guerra e pace


tolstoj
"tutte queste cause - miliardi di cause - dovettero concomitare per produrre ciò che avvenne. E di conseguenza, nulla fu causa unica ed esclusiva dell'avvenimento, ma l'avvenimento si compì unicamente perché doveva compiersi"



Le vite di alcuni nobili russi si intrecciano sullo sfondo degli avvenimenti che sconvolsero l'Europa tra il 1805 e il 1813 (con un epilogo intorno al 1820).


In
Guerra e pace, Tolstòj è magistrale sia nel delineare le psicologie individuali sia nell'orchestrare le scene corali.
I protagonisti del romanzo hanno caratteri complessi, una personalità sfaccettata che cambia, evolve, nel corso della narrazione, pur mantendendo la propria individualità.
So di esprimere un'opinione controcorrente, ma personalmente li ho trovati tutti piuttosto antipatici e mi sono spesso chiesta se Tolstòj li abbia tratteggiati così volontariamente o se, come è più probabile, siano semplicemente troppo distanti dalla sensibilità moderna.

Prendiamo quella che viene notoriamente etichettata come una delle figure più positive: il principe Andréj.
All'inizio del romanzo il principe Andréj è un nobile annoiato dall'alta società, sposato con una donna che non ama, che insegue sogni di gloria militare e per poco non riesce a farsi ammazzare in un inutile atto di eroismo. Con la morte della moglie, si deprime, si allontana da tutti gli incarichi e dai salotti, si rintana in campagna, dedicandosi solo all'amministrazione delle sue proprietà. Poi s'innamora di Nataša, ma non ci pensa nemmeno a sposarla contro il volere del padre, dilaziona, alla fine lei lo tradisce e lui, nuovamente, sprofonda nella depressione, ma questa volta decide di arruolarsi, senza inseguire più alcun sogno di gloria, anzi senza inseguire alcun sogno affatto.
Prima della battaglia di Borodinò troviamo un uomo cupo, arrabbiato, che odia la guerra, ma che vorrebbe non far prigionieri, bere il calce fino infondo.
Solo nell'agonia e nel nuovo incontro con Nataša, Andréj sembra trovare un barlume di umanità, di dolcezza, ma dura poco: con l'avvicinarsi della morte diventa un estraneo, si distacca da tutte le faccende terrene, di cui ormai non gli importa più nulla.

Qui è il sentimento religioso di Tolstòj ad emergere: un sentimento omnipresente che impernia tutta la narrazione e le vicende spirituali dei protagonisti (non solo del principe Andréj, ma anche e soprattutto di Pierre e della principessina Màr'ja). In modo per niente velato, Tolstòj addita la salvezza e il senso della vita nell'amore evangelico e nell'abbandono a dio - annoiando o infastidendo un pò il lettore ateo o laico.
Al riguardo non si può che condividere il giudizio di Turgenev che, pur apprezzando il romanzo, ne aveva però censurato l'eccessivo "filosofeggiare da autodidatta".

Le scene di massa sono splendide, Tolstòj riesce a far immergere il lettore nell'atmosfera delle feste moscovite e pietroburghesi, nelle conversazioni dei salotti, nella concitazione di una caccia alla volpe e, soprattutto, nel caos, nella ressa, nella paura e nel fumo delle battaglie e delle manovre militari. La guerra è per Tolstòj l'elemento su cui articolare e comprobare la sua filosofia della storia - come se una filosofia della storia si potesse in qualche modo verificare.

Per Tolstòj le vicende umane non sono casuali né dirette da singoli individui: a suo giudizio, la volontà individuale (quella dei "grandi eroi storici", di Napoleone, di Alessandro I, di Kutùzov e di tutti i generali) è assolutamente irrilevante rispetto sorti della storia, così come lo è rispetto all'esito di una battaglia.
Il romanzo è caldamente raccomandato a tutti gli appasionati di battaglie storiche: Tolstòj ha cura di mostrare, in modo ossessivo, se non estenuante, ricorrendo perfino a disegni, come tutti i piani militari, tutte le strategie riportate sui libri, furono sempre, costantemente, disattesi, in quando assolutamente inattuabili. Ciò, invero, principalmente per le scarse conoscenze topografiche e la difficoltà nelle comunicazioni, ma Tolstòj ne trae conseguenze ben più generali. A suo giudizio, i singoli individui non hanno alcun potere di influenza e non decidono alcunché: ciò che succede non poteva non succedere. Tutto è necessario.
Nella seconda parte dell'epilogo, Tolstòj torna - in modo pedante e didascalico - a ribadire la propria visione della storia (casomai al lettore non fossero bastate le 1830 pagine precedenti per farsi un'idea) e tenta anche un difficile connubio tra la necessità e il libero arbitrio: un tentativo che, però, sembra fallire, dal momento che la libertà si riduce soltanto ad un deficit epistemico - "ciò che ci è noto lo chiamiamo: leggi della necessità; e ciò che ci è ignoto: libertà"

Non stupisce che da questo romanzo sia stata tratta una fiction tv: la trama vi si presta tantissimo. I personaggi si incontrano in continuazione, nemmeno la Russia fosse un paesino, e le loro vicende continuano ad annodarsi tra feste, amori, duelli e battaglie.
La critica sociale poi è del tutto assente: i protagonisti sono tutti nobili e i muzikì, contadini e servi della gleba (in Russia la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861 da Alessandro II), sono o briganti criminali oppure servitori buoni e affezionati ai loro padroni (talvolta, come il servo di Pierre, rifiutano persino la libertà perché preferiscono continuare a servire fedelmente il loro bàrin), o, ancora, come Karatàev incarnano addirittura lo spirito russo - e lo spirito russo, per Tolstòj, è lo spirito dell'uomo animato da amore cristiano che ha compreso per istinto la necessità di ogni avvenimento e china mansueto il capo al volere della provvidenza.

E' interessante come molti romanzieri russi dell'800 parlino di spirito russo, e lo interpretino in modi così distanti - basti pensare a quello che lo spirito russo è per Dostoevskij. L'affiorare di uno spirito nazionalista viene spesso collegato a un sentimento di inferiorità e, in effetti, ciò che colpisce nella società nobiliare russa descritta da Tolstòj è proprio l'atmosfera francofila, l'ammirazione per i valori liberali e per la stessa figura di Buonaparte - estremamente divertente il racconto di come, dopo l'invasione di Napoleone, in molti salotti il francese sia messo al bando e i nobili russi si trovino in chiara difficoltà ad esprimersi nella loro lingua o siano addirittura costretti a prendere lezioni per impararla.

Uno degli aspetti più interessanti è proprio l'immagine della società russa che filtra dalle pagine del romanzo - le abitudini, i riti domestici, la condizione femminile e quella dei servi della gleba, lo stato della "scienza medica", le condizioni dell'esercito o degli ospedali (cui i soldati feriti preferivano saggiamente il fronte, dove, per lo meno, la morte non era certa).



domenica 16 dicembre 2007

Resident Evil













Resident Evil (2002), regia di Paul W.S. Anderson
Resident Evil: Apocalypse (2004), regia di Alexander Witt
Resident Evil: Exinction (2007), regia di Russell Mulcahy




La trilogia di Resident Evil è tutto quello che ci si aspetta da un ciclo di film
ispirato a un videogame: azione, suspense, effetti speciali, combattimenti à La Tigre e il dragone (o à la Kill Bill, o à la Hero, insomma un genere ormai visto e rivisto), con una splendida e splendidamente (s)vestita Milla Jovovich.
Eppure questi tre film sono ben lontani dai classici stereotipi hollywoodiani: soprattutto grazie ad una sceneggiatura - scritta sempre da Paul W.S. Anderson - per molti versi anticonformista.

In un futuro imprecisato, ma verosimilmente vicino, la Umbrella Corporation è la multinazionale più potente al mondo e, cosa ignota ai più, trae la maggior parte dei suoi profitti dalla creazione e dalla vendita di armi chimiche e biologiche.
Sotto la città di Raccoon City ha sede uno dei laboratori segreti della Umbrella, denominato l'Alverare. A seguito di un sabotaggio, un pericoloso virus si diffonde in questa struttura sotterranea e il computer centrale (la Regina) stermina tutto il personale, al fine di evitare il propagarsi del contagio.
Una squadra di soccorso della Umbrella, recuperati gli unici due sopravvissuti, gli agenti adetti a proteggere l'entrata segreta dell'Alveare, penetra nel laboratorio e si trova di fronte ad un esercito di morti viventi: è l'effetto del micidiale virus-T, che dopo aver causato la morte rianima i tessuti, trasformando chi ne è contagiato, in una sorta di zombie.
Solo Alice (Milla Jovovich) e Matt (un attivista no-global) uscirranno vivi dall'Alveare, ma entrambi saranno catturati dagli agenti della Umbrella, che li useranno come cavie per i loro esperimenti.

La trama presenta forti somiglianze con 28 giorni dopo (di Danny Boyle), la scena finale del primo episodio di Resident Evil è praticamente identica alla scena iniziale del film di Boyle - da un lato Alice che, risvegliatasi in una clinica della Umbrella, si ritrova in una Rancoon City devastata e deserta, dall'altro Jim (Cilliam Murphy) che, risvegliatosi dal coma in ospedale, si ritrova in una Londra parimenti devastata e deserta - ma è impossibile stabilire chi abbia copiato chi, visto che i film sono entrambi del 2002.

In Resident Evil: Apocalypse il virus si è ormai propagato in tutta Raccoon City: lo spettatore si aspetterebbe un intervento governativo, in perfetta sintonia coi classici film catastrofici statunitensi, dove c'è sempre un polizziotto buono, un presidente buono, un sindaco buono o un qualche altro buon p.u. che prende in mano la situazione. Invece sono i funzionari della Umbrella, che isolano la città e la mettono in quarantena. In tutti e tre gli episodi le istituzione statali sono pressoché assenti: tutto è gestito dalla potentissima multinazionale, che agisce solo secondo la logica del proprio profitto.

Certo, nel secondo episodio compaiono più squadre di agenti S.T.A.R.S. (Special Tactics and Rescue Service), tra cui Jill Valentine (Sienna Guillory), protagonista anche del videogame, ma anch'essi sono pedine dell'Umbrella Corporation, che, non solo non esita ad abbandonarli nella città infestata e destinata alla detonazione nucleare, ma li impiega come cavie per testare i risultati del progetto Nemesi - che consiste nell'infettare essere umani col virus-T per svilupparne la forza.
Alla fine Alice, che, a seguito degli esperimenti condotti su di lei, ha acquisito poteri sovraumani (ma, particolare non secondario, unica tra tutti i contagiati dal virus-T, non si è trasformata in un mostro) riuscirà a salvarsi, insieme all'agente Carlos Olivera (Oded Fehr) e a Jill Valentine, mentre la Umbrella farò esplodere il suo ordigno nucleare, sterminando tutta la popolazione di Raccon City - purtroppo inutilmente.

Dopo l'apocalisse, l'estinzione. Se l'ambientazione del primo episodio ricordava Alien 2 (di James Cameron), e quella del secondo Fuga da New York (di John Carpenter), il terzo è un omaggio diretto a Mad Max (di George Miller e Georgie Ogilvie) - anzi, pare difficile trovare un'altra giustificazione plausibile per l'avvenuta desertificazione del pianeta Terra, dal momento che il virus-T non sembrava agire sugli organismi vegetali nè tanto meno sul clima.

I pochi esseri umani superstiti si sono riuniti in carovane e si muovono di continuo per evitare gli attacchi degli zombie, col costante incubo di rimanere a secco di benzina.
Alice, che ha acquisito anche poteri psionici, è braccata dagli scienziati della Umbrella (da uno in particolare, il dr. Isaacs) che, rinchiusi nei loro laboratori, sono impegnati nella propria autoconservazione e, parrebbe, nella ricerca di un vacino - ma, per la verità, fin dal primo episodio si evince che un vaccino esiste già, solo che sembrerebbe scarsamente efficace (o, forse, efficace solo se assunto tempestivamente, ma il punto resta oscuro).

La trilogia si chiude con una speranza, anzi con due. Forse in Alaska esiste un presidio umano lontano da ogni rischio di contagio - Claire Redfield e un'altra superstite del convoglio da lei guidato partono in elicottero nella speranza di raggiungerlo - e Alice, alla guida di un esercito di sue cloni (opera del dr. Isaacs, che tentava di duplicare gli straordinari poteri della bella eroina), si appresta a dare la caccia ai dirigenti della Umbrella.

Intendiamoci, non siamo di fronte ad un capolavoro: la trama è spesso pasticciata, i caratteri dei personaggi sono essenziali, i dialoghi a dir poco scarni ed è tutto un'esplosione di cervelli ed effetti speciali.
Eppure sembra comunque apprezzabile la critica espressa, tutt'altro che sottile, alla globalizzazione - se non altro perché è l'ultima cosa che ci si aspetterebbe da questo genere di film.

Al di là dello specchio del benessere, Alice ci conduce in un paese degli orrori, dove le multinazionali imperano, governano le nostre vite e decidono la nostra morte, creando armi biologiche che desertificano il pianeta, trasformano gli animali (i cani, ma anche gli uccelli, in una scena che è un omaggio diretto a Hitchcock) in mostri pericolosi e, soprattutto, riducono gli esseri umani a zombie affamati - George Romero, benché non citato direttamente, rappresenta un punto di riferimento costante di tutta la narrazione.
Memorabile la scena di Las Vegas dove tutti i simboli della cultura e dell'arte occidentale sono ridotti a decadenti strutture di cartapesta, vuoti simulacri di una civiltà scomparsa.

Un altro elemento interessante è rappresentato dal fatto che, nei tre film, i personaggi carismatici, i capi della resistenza, sono sempre donne (Alice, Jill Valentine, Claire Redfield) - ciò si addice perfettamente alla logica manicheista del film: se la globalizzazione è un fenomeno essenzialmente maschile, perchè sono per lo più uomini i potenti della terra, la lotta contro di essa deve essere per lo più femminile.
Certo gli eroi uomini non mancano, ma non sono loro a guidare i superstiti e alla fine muoiono, in modo valoroso, ma muoiono - del resto 'i buoni' in questi film muoiono quasi tutti (nel primo se ne salvano solo due, nel secondo e nel terzo solo tre), ed anche questo è un aspetto originale: la guerra contro i poteri economici miete molte vittime e non è necessariamente destinata alla vittoria.

Tra le tante morti una in particolare merita di essere menzionata, forse una delle più belle scene di Extiction. Oltre al problema di zombie e carburante, i superstiti sono anche in preda a crisi di astinenza da nicotina, ma di sigarette non se ne trova. Carlos Olivera (Oded Fehr) si lancia in un'impresa suicida per dare una via di scampo ai suoi compagni: mentre il suo camion, rovesciato su un fianco, è assalito dagli zombie e lui sta per farsi saltare in aria, vede uno spinello sotto il sedile e se l'accende con un beato sorriso di gioia, mentre va incontro alla morte.
Questa è l'unica scena in cui si vede qualcuno fumare. Vi sembra un fatto da niente? Provate a guardare un qualsiasi film, statunitense o europeo, facendo caso a quante sigarette vengono accese. Una o due come minimo. Chi credete che paghi per queste scene? Almeno, in Resident Evil quella accessa non era affatto una sigaretta.

Resident Evil













Resident Evil (2002), regia di Paul W.S. Anderson
Resident Evil: Apocalypse (2004), regia di Alexander Witt
Resident Evil: Exinction (2007), regia di Russell Mulcahy




La trilogia di Resident Evil è tutto quello che ci si aspetta da un ciclo di film
ispirato a un videogame: azione, suspense, effetti speciali, combattimenti à La Tigre e il dragone (o à la Kill Bill, o à la Hero, insomma un genere ormai visto e rivisto), con una splendida e splendidamente (s)vestita Milla Jovovich.
Eppure questi tre film sono ben lontani dai classici stereotipi hollywoodiani: soprattutto grazie ad una sceneggiatura - scritta sempre da Paul W.S. Anderson - per molti versi anticonformista.

In un futuro imprecisato, ma verosimilmente vicino, la Umbrella Corporation è la multinazionale più potente al mondo e, cosa ignota ai più, trae la maggior parte dei suoi profitti dalla creazione e dalla vendita di armi chimiche e biologiche.
Sotto la città di Raccoon City ha sede uno dei laboratori segreti della Umbrella, denominato l'Alverare. A seguito di un sabotaggio, un pericoloso virus si diffonde in questa struttura sotterranea e il computer centrale (la Regina) stermina tutto il personale, al fine di evitare il propagarsi del contagio.
Una squadra di soccorso della Umbrella, recuperati gli unici due sopravvissuti, gli agenti adetti a proteggere l'entrata segreta dell'Alveare, penetra nel laboratorio e si trova di fronte ad un esercito di morti viventi: è l'effetto del micidiale virus-T, che dopo aver causato la morte rianima i tessuti, trasformando chi ne è contagiato, in una sorta di zombie.
Solo Alice (Milla Jovovich) e Matt (un attivista no-global) uscirranno vivi dall'Alveare, ma entrambi saranno catturati dagli agenti della Umbrella, che li useranno come cavie per i loro esperimenti.

La trama presenta forti somiglianze con 28 giorni dopo (di Danny Boyle), la scena finale del primo episodio di Resident Evil è praticamente identica alla scena iniziale del film di Boyle - da un lato Alice che, risvegliatasi in una clinica della Umbrella, si ritrova in una Rancoon City devastata e deserta, dall'altro Jim (Cilliam Murphy) che, risvegliatosi dal coma in ospedale, si ritrova in una Londra parimenti devastata e deserta - ma è impossibile stabilire chi abbia copiato chi, visto che i film sono entrambi del 2002.

In Resident Evil: Apocalypse il virus si è ormai propagato in tutta Raccoon City: lo spettatore si aspetterebbe un intervento governativo, in perfetta sintonia coi classici film catastrofici statunitensi, dove c'è sempre un polizziotto buono, un presidente buono, un sindaco buono o un qualche altro buon p.u. che prende in mano la situazione. Invece sono i funzionari della Umbrella, che isolano la città e la mettono in quarantena. In tutti e tre gli episodi le istituzione statali sono pressoché assenti: tutto è gestito dalla potentissima multinazionale, che agisce solo secondo la logica del proprio profitto.

Certo, nel secondo episodio compaiono più squadre di agenti S.T.A.R.S. (Special Tactics and Rescue Service), tra cui Jill Valentine (Sienna Guillory), protagonista anche del videogame, ma anch'essi sono pedine dell'Umbrella Corporation, che, non solo non esita ad abbandonarli nella città infestata e destinata alla detonazione nucleare, ma li impiega come cavie per testare i risultati del progetto Nemesi - che consiste nell'infettare essere umani col virus-T per svilupparne la forza.
Alla fine Alice, che, a seguito degli esperimenti condotti su di lei, ha acquisito poteri sovraumani (ma, particolare non secondario, unica tra tutti i contagiati dal virus-T, non si è trasformata in un mostro) riuscirà a salvarsi, insieme all'agente Carlos Olivera (Oded Fehr) e a Jill Valentine, mentre la Umbrella farò esplodere il suo ordigno nucleare, sterminando tutta la popolazione di Raccon City - purtroppo inutilmente.

Dopo l'apocalisse, l'estinzione. Se l'ambientazione del primo episodio ricordava Alien 2 (di James Cameron), e quella del secondo Fuga da New York (di John Carpenter), il terzo è un omaggio diretto a Mad Max (di George Miller e Georgie Ogilvie) - anzi, pare difficile trovare un'altra giustificazione plausibile per l'avvenuta desertificazione del pianeta Terra, dal momento che il virus-T non sembrava agire sugli organismi vegetali nè tanto meno sul clima.

I pochi esseri umani superstiti si sono riuniti in carovane e si muovono di continuo per evitare gli attacchi degli zombie, col costante incubo di rimanere a secco di benzina.
Alice, che ha acquisito anche poteri psionici, è braccata dagli scienziati della Umbrella (da uno in particolare, il dr. Isaacs) che, rinchiusi nei loro laboratori, sono impegnati nella propria autoconservazione e, parrebbe, nella ricerca di un vacino - ma, per la verità, fin dal primo episodio si evince che un vaccino esiste già, solo che sembrerebbe scarsamente efficace (o, forse, efficace solo se assunto tempestivamente, ma il punto resta oscuro).

La trilogia si chiude con una speranza, anzi con due. Forse in Alaska esiste un presidio umano lontano da ogni rischio di contagio - Claire Redfield e un'altra superstite del convoglio da lei guidato partono in elicottero nella speranza di raggiungerlo - e Alice, alla guida di un esercito di sue cloni (opera del dr. Isaacs, che tentava di duplicare gli straordinari poteri della bella eroina), si appresta a dare la caccia ai dirigenti della Umbrella.

Intendiamoci, non siamo di fronte ad un capolavoro: la trama è spesso pasticciata, i caratteri dei personaggi sono essenziali, i dialoghi a dir poco scarni ed è tutto un'esplosione di cervelli ed effetti speciali.
Eppure sembra comunque apprezzabile la critica espressa, tutt'altro che sottile, alla globalizzazione - se non altro perché è l'ultima cosa che ci si aspetterebbe da questo genere di film.

Al di là dello specchio del benessere, Alice ci conduce in un paese degli orrori, dove le multinazionali imperano, governano le nostre vite e decidono la nostra morte, creando armi biologiche che desertificano il pianeta, trasformano gli animali (i cani, ma anche gli uccelli, in una scena che è un omaggio diretto a Hitchcock) in mostri pericolosi e, soprattutto, riducono gli esseri umani a zombie affamati - George Romero, benché non citato direttamente, rappresenta un punto di riferimento costante di tutta la narrazione.
Memorabile la scena di Las Vegas dove tutti i simboli della cultura e dell'arte occidentale sono ridotti a decadenti strutture di cartapesta, vuoti simulacri di una civiltà scomparsa.

Un altro elemento interessante è rappresentato dal fatto che, nei tre film, i personaggi carismatici, i capi della resistenza, sono sempre donne (Alice, Jill Valentine, Claire Redfield) - ciò si addice perfettamente alla logica manicheista del film: se la globalizzazione è un fenomeno essenzialmente maschile, perchè sono per lo più uomini i potenti della terra, la lotta contro di essa deve essere per lo più femminile.
Certo gli eroi uomini non mancano, ma non sono loro a guidare i superstiti e alla fine muoiono, in modo valoroso, ma muoiono - del resto 'i buoni' in questi film muoiono quasi tutti (nel primo se ne salvano solo due, nel secondo e nel terzo solo tre), ed anche questo è un aspetto originale: la guerra contro i poteri economici miete molte vittime e non è necessariamente destinata alla vittoria.

Tra le tante morti una in particolare merita di essere menzionata, forse una delle più belle scene di Extiction. Oltre al problema di zombie e carburante, i superstiti sono anche in preda a crisi di astinenza da nicotina, ma di sigarette non se ne trova. Carlos Olivera (Oded Fehr) si lancia in un'impresa suicida per dare una via di scampo ai suoi compagni: mentre il suo camion, rovesciato su un fianco, è assalito dagli zombie e lui sta per farsi saltare in aria, vede uno spinello sotto il sedile e se l'accende con un beato sorriso di gioia, mentre va incontro alla morte.
Questa è l'unica scena in cui si vede qualcuno fumare. Vi sembra un fatto da niente? Provate a guardare un qualsiasi film, statunitense o europeo, facendo caso a quante sigarette vengono accese. Una o due come minimo. Chi credete che paghi per queste scene? Almeno, in Resident Evil quella accessa non era affatto una sigaretta.

martedì 11 dicembre 2007

Lisbona

francesca poggi


francesca poggi










Tutti dicono di Lisbona che è una città stupenda, dal fascino decadente.
Hanno ragione.

Mi è piaciuto:

perdermi per i vicoli, le macerie e le case variopinte di azulejos (le pialestrelle di ceramica smaltata) dell'Alfama

riposarmi davanti alla città nei tanti miradores, o al castello, oppure davanti al mare (anzi, davanti all'estuario del Tago)

bere la ginjinha (un liquore a base di una specie di ciliegia, che assomiglia molto al mirto) da Eduardino (in rua Portas de Santo Antao, o giù di lì)

vagare di notte tra i numerosissimi e affollatissimi locali e bar del Bairro Alto - a chiaccherare coi portoghesi e a bere vino e birra a prezzi irrisori

mangiare nelle tascas - osterie, anzi bettole, che servono cucina casalinga (arringhe, maiale, ma soprattutto baccalà) - tra le tante:
O Carvoeiro (calcada de Sao Vincente 70) - buonissimo, anche se un pò salato, il porco alentejano (ossia maiale con vongole)
e, soprattutto, O comforto (rua Pocos dos Negros 155), stile povero anni '70, sembra una mensa popolare, con tanto di anziani pensionati incantati davanti alla televisione e bambini scorazzanti - imperdibile!
Un pò deludente invece la tanto decantata Cerveceria da Trinidade (in rua nova da Trinidade) - il locale è decisamente suggestivo, ma la cucina non era all'altezza delle aspettative - sarà che ho scelto il piatto tipico: açorda de gambas, una pappetta di pane, cipolla e gamberi - non cattiva, ma terribilmente pesante.

Ottimi anche i risoranti etnici:
il brasiliano Comida de Santo (in calcada E. Miguel Pais) e
il capoverdiano, Sao Cristovao: piccolo, accogliente e familiare, piatti basici ma saporiti (dopo tanti anni ho mangiato di nuovo la Cachupa: era diversa da tutte le altre, e in ciò identica ad ogni altra cachupa che ho assaggiato a Capo Verde).

I prezzi dei ristoranti sono davvero contenuti e non è difficile trovare anche alberghi economici - noi stavamo al Residencial Florescente (rua Portas de Santo Antao): centrale e comodo, ma la stanza era davvero piccola e il letto lillipuziano (per persone sotto il metro e 70).

Il clima è fantastico: i primi di dicembre c'erano 16/19 gradi - a mezzogiorno si stava in maniche corte, la sera si poteva cenare e bere fuori - anche se a tratti saliva una fredda brezza marina.

Ecco altre foto
e un altro racconto di viaggio









Lisbona

francesca poggi


francesca poggi










Tutti dicono di Lisbona che è una città stupenda, dal fascino decadente.
Hanno ragione.

Mi è piaciuto:

perdermi per i vicoli, le macerie e le case variopinte di azulejos (le pialestrelle di ceramica smaltata) dell'Alfama

riposarmi davanti alla città nei tanti miradores, o al castello, oppure davanti al mare (anzi, davanti all'estuario del Tago)

bere la ginjinha (un liquore a base di una specie di ciliegia, che assomiglia molto al mirto) da Eduardino (in rua Portas de Santo Antao, o giù di lì)

vagare di notte tra i numerosissimi e affollatissimi locali e bar del Bairro Alto - a chiaccherare coi portoghesi e a bere vino e birra a prezzi irrisori

mangiare nelle tascas - osterie, anzi bettole, che servono cucina casalinga (arringhe, maiale, ma soprattutto baccalà) - tra le tante:
O Carvoeiro (calcada de Sao Vincente 70) - buonissimo, anche se un pò salato, il porco alentejano (ossia maiale con vongole)
e, soprattutto, O comforto (rua Pocos dos Negros 155), stile povero anni '70, sembra una mensa popolare, con tanto di anziani pensionati incantati davanti alla televisione e bambini scorazzanti - imperdibile!
Un pò deludente invece la tanto decantata Cerveceria da Trinidade (in rua nova da Trinidade) - il locale è decisamente suggestivo, ma la cucina non era all'altezza delle aspettative - sarà che ho scelto il piatto tipico: açorda de gambas, una pappetta di pane, cipolla e gamberi - non cattiva, ma terribilmente pesante.

Ottimi anche i risoranti etnici:
il brasiliano Comida de Santo (in calcada E. Miguel Pais) e
il capoverdiano, Sao Cristovao: piccolo, accogliente e familiare, piatti basici ma saporiti (dopo tanti anni ho mangiato di nuovo la Cachupa: era diversa da tutte le altre, e in ciò identica ad ogni altra cachupa che ho assaggiato a Capo Verde).

I prezzi dei ristoranti sono davvero contenuti e non è difficile trovare anche alberghi economici - noi stavamo al Residencial Florescente (rua Portas de Santo Antao): centrale e comodo, ma la stanza era davvero piccola e il letto lillipuziano (per persone sotto il metro e 70).

Il clima è fantastico: i primi di dicembre c'erano 16/19 gradi - a mezzogiorno si stava in maniche corte, la sera si poteva cenare e bere fuori - anche se a tratti saliva una fredda brezza marina.

Ecco altre foto
e un altro racconto di viaggio









sabato 1 dicembre 2007

Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale

In Teorie e ideologie nel diritto sindacale (Comunità, Milano, 1967) – un libro purtroppo non più ristampato e reperibile solo in biblioteca - Giovanni Tarello (1934-1987) analizza come, dall’entrata in vigore della Costituzione alla fine degli anni ’50, il diritto sindacale sia stato creato, spesso consapevolmente, dai giuristi e dai giudici, oltreché, spesso inconsapevolmente, dalla prassi sindacale.

Due condizioni resero possibile quest’opera di creazione dottrinale e giurisprudenziale di diritto.
Da un lato, una situazione di vuoto normativo: l’ordinamento del lavoro era forse l’unico settore generale dell’ordinamento giuridico del tempo fascista che, pur con tutta la buona volontà di giudici e giuristi, non avrebbe potuto sopravvivere alla caduta del regime (venendo a mancare il suo necessario supporto costituito dalle Coorporazioni fasciste e dalla Magistratura del lavoro) e alla abrogazione dell’ordinamento fascista si accompagnò la mancanza di un intervento dettagliato del legislatore, sia ordinario che costituzionale.
D’altro lato, in questo vuoto legislativo si venne determinando un processo di istituzionalizzazione e organizzazione dei rapporti industriali che venne avvertito, da parte della dottrina, come un processo di giuridificazione spontanea.

Attraverso l’analisi delle elaborazioni dottrinali e della loro recezione giurisprudenziale, Tarello si propone di dimostrare una tesi spesso controversa: quella secondo cui il diritto, ossia l’insieme delle norme giuridiche vincolanti, è creato anche dalla dottrina (sia pure indirettamente, ossia attraverso il filtro giurisprudenziale).
In particolare, secondo Tarello, la creazione dottrinale del diritto avviene mediante la costruzione di modelli normativi, cioè di modelli “che servono come guida nel corso di qualche operazione intellettuale o pratica per stimolare un processo di avvicinamento del fenomeno [oggetto del modello] verso una particolare meta che nel modello normativo compare in particolare rilievo come elemento strutturale del fenomeno” (p. 133).

Per Tarello le costruzioni dogmatiche dottrinali sono spesso ideologiche in due sensi profondamente diversi: o rispetto alla propria genesi o rispetto alla propria funzione.
Una dottrina giuridica è un’ideologia nel primo senso quando “chi la elabora la fonda (più o meno consapevolmente) su di una precostituita concezione dei fatti o su di una precostituita metodologia scientifica che costituiscono una ideologia politica, ovvero impiega un linguaggio o un gergo che ha un senso o una connotazione ideologica; una dottrina giuridica è un’ideologia nel senso quando e in quanto il suo impiego da parte di un operatore giuridico tende a far evolvere e a condizionare il fenomeno giuridico disciplinato in modo da adeguarlo ad un modello” (p. 144).

Secondo Tarello ciò implica, tra l’altro, che siano possibili due tipi di storia delle idee giuridiche: una storiografia che mira a isolare la genesi ideologica delle dottrine giuridiche e una storiografia che mira ad identificare il modello cui tali dottrine tendono ad avvicinare il fenomeno disciplinato.
La ricerca di Tarello rappresenta un esempio mirabile di questo secondo tipo di ricerche.

Così Tarello mostra come la dottrina si dedicò al (e conseguì il) superamento della configurazione dei sindacati e della contrattazione collettiva espressa dal testo costituzionale, oltre che attraverso peculiari interpretazioni della libertà sindacale sancita dall’art. 39, I comma Cost., anche mediante l’elaborazione di un modello normativo incentrato sulla nozione dogmatica di ‘interesse collettivo’ e sulle conseguenti figure dei ‘sindacati di diritto comune’ e del ‘contratto collettivo di diritto comune’.
Gli esiti pratici di una simile operazione dottrinale furono molteplici.
Il sindacato, nell’ambito di questa concezione, non è considerato come un organo pubblico preposto alla formazione di norme collettive, bensì come un’associazione privata, dedita alla tutela di interessi economici (e non politici) che contrae obbligazioni di diritto privato, formulando contratti normativi inquadrati come normali contratti di diritto privato - contratti obbligatori, bilaterali, a prestazioni corrispettive.
Ciò consentì, tra l’altro, di sostituire ad un meccanismo (quello previsto dalla Costituzione) che eliminava la concorrenza tra i lavoratori appartenenti ad una stessa categoria professionale, un altro meccanismo che limitava esclusivamente la concorrenza tra lavoratori che siano iscritti al medesimo sindacato; ossia tendeva a permettere la concorrenza tra gruppi di lavoratori corrispondenti ai diversi sindacati e, attraverso questa concorrenza a creare le condizioni di una discriminazione (attraverso la contrattazione separata) tra gruppi di lavoratori.

L’inizio della fine.

Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale

In Teorie e ideologie nel diritto sindacale (Comunità, Milano, 1967) – un libro purtroppo non più ristampato e reperibile solo in biblioteca - Giovanni Tarello (1934-1987) analizza come, dall’entrata in vigore della Costituzione alla fine degli anni ’50, il diritto sindacale sia stato creato, spesso consapevolmente, dai giuristi e dai giudici, oltreché, spesso inconsapevolmente, dalla prassi sindacale.

Due condizioni resero possibile quest’opera di creazione dottrinale e giurisprudenziale di diritto.
Da un lato, una situazione di vuoto normativo: l’ordinamento del lavoro era forse l’unico settore generale dell’ordinamento giuridico del tempo fascista che, pur con tutta la buona volontà di giudici e giuristi, non avrebbe potuto sopravvivere alla caduta del regime (venendo a mancare il suo necessario supporto costituito dalle Coorporazioni fasciste e dalla Magistratura del lavoro) e alla abrogazione dell’ordinamento fascista si accompagnò la mancanza di un intervento dettagliato del legislatore, sia ordinario che costituzionale.
D’altro lato, in questo vuoto legislativo si venne determinando un processo di istituzionalizzazione e organizzazione dei rapporti industriali che venne avvertito, da parte della dottrina, come un processo di giuridificazione spontanea.

Attraverso l’analisi delle elaborazioni dottrinali e della loro recezione giurisprudenziale, Tarello si propone di dimostrare una tesi spesso controversa: quella secondo cui il diritto, ossia l’insieme delle norme giuridiche vincolanti, è creato anche dalla dottrina (sia pure indirettamente, ossia attraverso il filtro giurisprudenziale).
In particolare, secondo Tarello, la creazione dottrinale del diritto avviene mediante la costruzione di modelli normativi, cioè di modelli “che servono come guida nel corso di qualche operazione intellettuale o pratica per stimolare un processo di avvicinamento del fenomeno [oggetto del modello] verso una particolare meta che nel modello normativo compare in particolare rilievo come elemento strutturale del fenomeno” (p. 133).

Per Tarello le costruzioni dogmatiche dottrinali sono spesso ideologiche in due sensi profondamente diversi: o rispetto alla propria genesi o rispetto alla propria funzione.
Una dottrina giuridica è un’ideologia nel primo senso quando “chi la elabora la fonda (più o meno consapevolmente) su di una precostituita concezione dei fatti o su di una precostituita metodologia scientifica che costituiscono una ideologia politica, ovvero impiega un linguaggio o un gergo che ha un senso o una connotazione ideologica; una dottrina giuridica è un’ideologia nel senso quando e in quanto il suo impiego da parte di un operatore giuridico tende a far evolvere e a condizionare il fenomeno giuridico disciplinato in modo da adeguarlo ad un modello” (p. 144).

Secondo Tarello ciò implica, tra l’altro, che siano possibili due tipi di storia delle idee giuridiche: una storiografia che mira a isolare la genesi ideologica delle dottrine giuridiche e una storiografia che mira ad identificare il modello cui tali dottrine tendono ad avvicinare il fenomeno disciplinato.
La ricerca di Tarello rappresenta un esempio mirabile di questo secondo tipo di ricerche.

Così Tarello mostra come la dottrina si dedicò al (e conseguì il) superamento della configurazione dei sindacati e della contrattazione collettiva espressa dal testo costituzionale, oltre che attraverso peculiari interpretazioni della libertà sindacale sancita dall’art. 39, I comma Cost., anche mediante l’elaborazione di un modello normativo incentrato sulla nozione dogmatica di ‘interesse collettivo’ e sulle conseguenti figure dei ‘sindacati di diritto comune’ e del ‘contratto collettivo di diritto comune’.
Gli esiti pratici di una simile operazione dottrinale furono molteplici.
Il sindacato, nell’ambito di questa concezione, non è considerato come un organo pubblico preposto alla formazione di norme collettive, bensì come un’associazione privata, dedita alla tutela di interessi economici (e non politici) che contrae obbligazioni di diritto privato, formulando contratti normativi inquadrati come normali contratti di diritto privato - contratti obbligatori, bilaterali, a prestazioni corrispettive.
Ciò consentì, tra l’altro, di sostituire ad un meccanismo (quello previsto dalla Costituzione) che eliminava la concorrenza tra i lavoratori appartenenti ad una stessa categoria professionale, un altro meccanismo che limitava esclusivamente la concorrenza tra lavoratori che siano iscritti al medesimo sindacato; ossia tendeva a permettere la concorrenza tra gruppi di lavoratori corrispondenti ai diversi sindacati e, attraverso questa concorrenza a creare le condizioni di una discriminazione (attraverso la contrattazione separata) tra gruppi di lavoratori.

L’inizio della fine.