venerdì 15 maggio 2009

Sandel, Contro la perferzione


In Contro la perfezione (The Case against Perfection, 2007; trad. it., V&P, Milano, 2008, pp. 122), Michael J. Sandel tenta di escogitare un argomento (unico) contro tutti gli impieghi della genetica umana a scopo non terapeutico.
Sandel parte chiedendosi quale sia la causa del generale turbamento nei confronti di scenari (attuali o solo futuribili) quali atleti geneticamente modificati, genitori che programmano i loro figli (il sesso, l'altezza, le doti atletiche, ecc.), banche del seme (con annesso catalogo esplicativo delle virtù dei donatori) o fotomodelle che mettono in vendita i loro ovuli.

Secondo Sandel tutte queste pratiche rivelano un "impulso prometeico a ridisegnare la natura, anche la nostra, conformemente ai nostri scopi e desideri [...] quello che l'impulso di padronanza si lascia sfuggire, e potrebbe distruggere, è la dimensione del dono" (p. 40).
Sandel ritiene, cioé, che tutte queste pratiche, rappresentando il trionfo della volontà e dello spirito di dominio sulla referenza verso i doni naturali, possano mettere in crisi tre valori fondamentali: l'umiltà, la responsabilità e la solidarietà.

Le tecniche di automiglioramento genetico distruggerebbero l'umiltà, derivante dalla consapevolezza che le nostre doti e le nostre capacità non sono (solo) opera nostra: i nostri talenti non sarebbero più avvertiti come "un dono di cui siamo in debito [bensì, come] un risultato di cui siamo responsabili" (p. 90). Ciò determinerebbe un'autentica "esplosione di responsabilità" (p.92) per la nostra sorte e per quella dei nostri figli, la quale, a sua volta, diminuirebbe il senso di solidarietà. "Chi è in fondo alla scala sociale non sarebbe considerato svataggiato e con un titolo a un qualche risarcimento, ma malriuscito e bisognoso di una qualche messa a punto. Non più controbilanciata dal caso, la meritocrazia diventerebbe più severa e meno comprensiva" (p. 94).

In particolare, rispetto agli atleti geneticamente modificati il problema, secondo Sandel, è che essi "corrompono la competizione atletica in quanto attività umana che onora la coltivazione e l'espressione del talento naturale" (p. 42). Rispetto ai figli programmati a tavolino, invece, il "problema è la hybris dei genitori progettanti; è il loro impulso a padroneggiare il mistero della nascita" (p. 56) che li priva della capacità di amare incondizionatamente la propria prole come un dono o una benedizione.
Quanto agli ovuli delle top model, invece, Sandel omette di fornire ragioni del (suo) turbamento: forse anche aver figli da fotomodelle è un dono naturale (che non si può conquistare acquistandone gli ovuli) o forse per accoppiarsi con fotomodelle occorre avere doni naturali - e chi non li possiede, toglie gusto ai più fortunati, corrompendo la pratica della procreazione con top model - stesso discorso per il seme degli avvenenti studentelli americani.



Come si sarà già intuito, l'argomento di Sandel non persuade.
In molti hanno osservato che il concetto di 'dono', presuppone un 'donatore' e funziona solo in un contesto religioso - in un contesto in cui si debba rispettare il dono per deferenza verso il donatore. Anche il concetto di hybris, del resto, è un concetto religioso: è la superbia di chi viola le leggi naturali, scatenando la nemesis degli dei.
Sandel ritiene invece che l'etica del dono sia condivisibile anche al di fuori di ogni sensibilità religiosa (cfr. pp. 40, 94 ss.): ma cosa può significare per un ateo che i talenti naturali sono un dono? I talenti naturali sono frutto del caso (o, al limite, e solo parzialmente, della lungimiranza di genitori che hanno deciso di accoppiarsi tra loro): perché il fatto di avere una certa dote per caso dovrebbe essere un valore?

Rispetto alle pratiche agonistiche Sandel ammette che l'argomento del dono dovrebbe portare a vietare, non solo le modificazioni genetiche, ma tutti quegli allenamenti e tutte quelle diete che mettono a repentaglio l'integrità della competizione e snaturano il senso, il telos, dello sport in questione - cosa sia questo senso, questo telos, rimane oscuro (e anche Sandel riconosce che c'è di che dibattere - mi chiedo, ad esempio, se il senso della thai-box porti a vietare ogni forma di protezione? Probabilmente sì, visto che le protezioni "snaturano" una competizione dove dovrebbe vincere chi picchia di più e più forte). Il problema, però, è che il ragionamento di Sandel implica (o può implicare) la messa al bando di tutti gli allenamenti, dal momento che tutti inquinano i doni naturali e impediscono la piena visibilità dei talenti puri - e l'argomento dell'equità (i.e. tutti possono allenarsi) non vale a screditare questa conclusione, posto che, come rivela lo stesso Sandel, si applica anche nei confronti delle modificazioni genetiche.

Quanto alla programmazione genetica della prole, proprio non si comprende perchè i genitori possano ricorrere alle tecniche genetiche per curare malattie (i figli malati non sono un dono?) e possano, anzi debbano, indirizzare i figli e valorizzarne i talenti naturali casuali, ma non possano invece fornirli di abilità ulteriori. Certo, c'è qualcosa che ci turba in genitori che programmano i loro figli, ma non è quello che ritiene Sandel.

Come ha scritto Lombardi Vallauri, il vero problema è avere genitori pazzi e, aggiungo io, il fatto di voler programmare geneticamente i propri figli è un indizio di pazzia - è la spia di un atteggiamento autoritario e programmatore (anche vagamente psicotico) che, probabilmente, condurrà i genitori a tentare di imporre ai figli i propri progetti e le proprie preferenze. Contrariamente a quanto sostiene Sandel, il vero problema non è quindi la hybris dei genitori nei confronti di una natura che in sè non ha alcun valore, bensì l'autonomia dei figli. Tuttavia, si tratta solo di un indizio. Ci possono essere genitori programmatori che non sono folli - e, purtroppo, come lo stesso Sandel non omette di rilevare, ci sono sempre stati e ci sono tutt'ora molti genitori folli che non hanno alcun bisogno di ricorrere alla genetica per tentare di plasmare la loro discendenza secondo le loro personali preferenze.


Di certo Sandel ha ragione nel ritenere che, qualora in futuro si sviluppino tecniche che permettono di modificare noi stessi e di determinare le caratteristiche genetiche della nostra discendenza, questo aumenterebbe in modo esorbitante le nostre responsabilità. Ciò però è vero rispetto ad ogni nuova libertà: ogni nuova possibilità di scelta determina una nuova responsabilità, ma non per questo riteniamo che essere liberi di optare tra più alternative di azione sia un male.

Forse l'argomento più solido di Sandel è quello fondato sulla solidarietà sociale: in un certo senso la nostra capacità di universalizzare i giudizi morali, e, in generale, il ragionamento che consiste nel metterci nei panni degli altri, si fondano davvero sull'idea che noi non abbiamo alcun merito per ciò che siamo, che potevamo benissimo trovarci a nascere in un'altra situazione meno vantaggiosa.

Mi chiedo: ma deve essere necessariamente così? Anche il fatto di essere stati programmati dai nostri genitori non è merito nostro, come non lo è il fatto di essere nati abbastanza ricchi da poterci permettere di automigliorarci geneticamente (o di comprarci una casa, una macchina, ecc.). La programmazione o l'automiglioramento genetico non sono "meriti nostri", così come non sarebbero nostre colpe l'essere troppo poveri per accedere alla tecniche genetiche o aver avuto genitori che non ne hanno usufruito.

Infine condivido il favore di Sandel per la ricerca sulle cellule staminali - purtroppo, però, come ben dimostra l'introduzione di Gianni Ambrosio (un eccellente esempio di moderno oscurantismo, contrario persino all'aborto terapeutico!) - gli argomenti di Sandel, per quanto ragionevoli, hanno una scarsa presa nei confronti di chi non parta dalle stesse basi morali.