martedì 11 agosto 2009

Coetzee, Età di ferro

Diventiamo ciò che sposiamo. Noi che abbiamo sposato il Sudafrica diventiamo sudafricani: tetri, accidiosi, pigri. L'unico segno di vita di cui siamo capaci: scoprire i denti in una rapida smorfia quando ci crocifiggono. Il Sudafrica: un vecchio mastino incattivito, addormentato sulla soglia, lento a morire. E poi, che nome poco fantasioso da dare a un paese! Speriamo che decidano di cambiarlo quando ricominceranno tutto da capo.
p. 63


Età di ferro (Age of iron, 1990) del premio Nobel John Maxwell Coetzee è un romanzo epistolare duro, quasi feroce, nello stile di altri suoi capolavori, quali Vergogna o Aspettando i barbari.

Nel Sudafrica degli anni '80 l'incontro tra una vecchia bianca, borghese, sola, erosa dal cancro, e un barbone alcolizzato, mentre nei ghetti neri s'incendia la rivolta.

Gli oppressori sono militari, giovani, freddi e formali, col mitra al petto; sono l'immagine televisiva di politici-buffoni, sono l'inno nazionale e una lingua bastarda (l'afrikaans). Sono bianchi. Sono tutti i bianchi: anche quelli che non hanno mai appoggiato il regime dell'aphartied, quelli che si sono limitati a guardarlo, o a criticarlo, anche quelli che sono fuggiti, che hanno rivolto lo sguardo altrove. La vergogna è il marchio inesorabile di tutti costoro - il sentimento che pervade la vecchia protagonista, il cancro che la consuma.
Gli oppressi sono un branco di ragazzi, famelici e spietati, che giocano alla guerra e muoiono e uccidono davvero, e bruciano tutto e tutti senza pietà, senza remora, senza controllo.

Coetzee non risparmia nessuno, non vede alcuna 'giustizia' nel furore della rivolta, solo altro odio, altra violenza - solo lo sviluppo ineludibile di una storia di schiavitù.

Finale criptico, non manca qualche nota patetica di troppo.

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