giovedì 27 dicembre 2007

Tolstòj, Guerra e pace


tolstoj
"tutte queste cause - miliardi di cause - dovettero concomitare per produrre ciò che avvenne. E di conseguenza, nulla fu causa unica ed esclusiva dell'avvenimento, ma l'avvenimento si compì unicamente perché doveva compiersi"



Le vite di alcuni nobili russi si intrecciano sullo sfondo degli avvenimenti che sconvolsero l'Europa tra il 1805 e il 1813 (con un epilogo intorno al 1820).


In
Guerra e pace, Tolstòj è magistrale sia nel delineare le psicologie individuali sia nell'orchestrare le scene corali.
I protagonisti del romanzo hanno caratteri complessi, una personalità sfaccettata che cambia, evolve, nel corso della narrazione, pur mantendendo la propria individualità.
So di esprimere un'opinione controcorrente, ma personalmente li ho trovati tutti piuttosto antipatici e mi sono spesso chiesta se Tolstòj li abbia tratteggiati così volontariamente o se, come è più probabile, siano semplicemente troppo distanti dalla sensibilità moderna.

Prendiamo quella che viene notoriamente etichettata come una delle figure più positive: il principe Andréj.
All'inizio del romanzo il principe Andréj è un nobile annoiato dall'alta società, sposato con una donna che non ama, che insegue sogni di gloria militare e per poco non riesce a farsi ammazzare in un inutile atto di eroismo. Con la morte della moglie, si deprime, si allontana da tutti gli incarichi e dai salotti, si rintana in campagna, dedicandosi solo all'amministrazione delle sue proprietà. Poi s'innamora di Nataša, ma non ci pensa nemmeno a sposarla contro il volere del padre, dilaziona, alla fine lei lo tradisce e lui, nuovamente, sprofonda nella depressione, ma questa volta decide di arruolarsi, senza inseguire più alcun sogno di gloria, anzi senza inseguire alcun sogno affatto.
Prima della battaglia di Borodinò troviamo un uomo cupo, arrabbiato, che odia la guerra, ma che vorrebbe non far prigionieri, bere il calce fino infondo.
Solo nell'agonia e nel nuovo incontro con Nataša, Andréj sembra trovare un barlume di umanità, di dolcezza, ma dura poco: con l'avvicinarsi della morte diventa un estraneo, si distacca da tutte le faccende terrene, di cui ormai non gli importa più nulla.

Qui è il sentimento religioso di Tolstòj ad emergere: un sentimento omnipresente che impernia tutta la narrazione e le vicende spirituali dei protagonisti (non solo del principe Andréj, ma anche e soprattutto di Pierre e della principessina Màr'ja). In modo per niente velato, Tolstòj addita la salvezza e il senso della vita nell'amore evangelico e nell'abbandono a dio - annoiando o infastidendo un pò il lettore ateo o laico.
Al riguardo non si può che condividere il giudizio di Turgenev che, pur apprezzando il romanzo, ne aveva però censurato l'eccessivo "filosofeggiare da autodidatta".

Le scene di massa sono splendide, Tolstòj riesce a far immergere il lettore nell'atmosfera delle feste moscovite e pietroburghesi, nelle conversazioni dei salotti, nella concitazione di una caccia alla volpe e, soprattutto, nel caos, nella ressa, nella paura e nel fumo delle battaglie e delle manovre militari. La guerra è per Tolstòj l'elemento su cui articolare e comprobare la sua filosofia della storia - come se una filosofia della storia si potesse in qualche modo verificare.

Per Tolstòj le vicende umane non sono casuali né dirette da singoli individui: a suo giudizio, la volontà individuale (quella dei "grandi eroi storici", di Napoleone, di Alessandro I, di Kutùzov e di tutti i generali) è assolutamente irrilevante rispetto sorti della storia, così come lo è rispetto all'esito di una battaglia.
Il romanzo è caldamente raccomandato a tutti gli appasionati di battaglie storiche: Tolstòj ha cura di mostrare, in modo ossessivo, se non estenuante, ricorrendo perfino a disegni, come tutti i piani militari, tutte le strategie riportate sui libri, furono sempre, costantemente, disattesi, in quando assolutamente inattuabili. Ciò, invero, principalmente per le scarse conoscenze topografiche e la difficoltà nelle comunicazioni, ma Tolstòj ne trae conseguenze ben più generali. A suo giudizio, i singoli individui non hanno alcun potere di influenza e non decidono alcunché: ciò che succede non poteva non succedere. Tutto è necessario.
Nella seconda parte dell'epilogo, Tolstòj torna - in modo pedante e didascalico - a ribadire la propria visione della storia (casomai al lettore non fossero bastate le 1830 pagine precedenti per farsi un'idea) e tenta anche un difficile connubio tra la necessità e il libero arbitrio: un tentativo che, però, sembra fallire, dal momento che la libertà si riduce soltanto ad un deficit epistemico - "ciò che ci è noto lo chiamiamo: leggi della necessità; e ciò che ci è ignoto: libertà"

Non stupisce che da questo romanzo sia stata tratta una fiction tv: la trama vi si presta tantissimo. I personaggi si incontrano in continuazione, nemmeno la Russia fosse un paesino, e le loro vicende continuano ad annodarsi tra feste, amori, duelli e battaglie.
La critica sociale poi è del tutto assente: i protagonisti sono tutti nobili e i muzikì, contadini e servi della gleba (in Russia la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861 da Alessandro II), sono o briganti criminali oppure servitori buoni e affezionati ai loro padroni (talvolta, come il servo di Pierre, rifiutano persino la libertà perché preferiscono continuare a servire fedelmente il loro bàrin), o, ancora, come Karatàev incarnano addirittura lo spirito russo - e lo spirito russo, per Tolstòj, è lo spirito dell'uomo animato da amore cristiano che ha compreso per istinto la necessità di ogni avvenimento e china mansueto il capo al volere della provvidenza.

E' interessante come molti romanzieri russi dell'800 parlino di spirito russo, e lo interpretino in modi così distanti - basti pensare a quello che lo spirito russo è per Dostoevskij. L'affiorare di uno spirito nazionalista viene spesso collegato a un sentimento di inferiorità e, in effetti, ciò che colpisce nella società nobiliare russa descritta da Tolstòj è proprio l'atmosfera francofila, l'ammirazione per i valori liberali e per la stessa figura di Buonaparte - estremamente divertente il racconto di come, dopo l'invasione di Napoleone, in molti salotti il francese sia messo al bando e i nobili russi si trovino in chiara difficoltà ad esprimersi nella loro lingua o siano addirittura costretti a prendere lezioni per impararla.

Uno degli aspetti più interessanti è proprio l'immagine della società russa che filtra dalle pagine del romanzo - le abitudini, i riti domestici, la condizione femminile e quella dei servi della gleba, lo stato della "scienza medica", le condizioni dell'esercito o degli ospedali (cui i soldati feriti preferivano saggiamente il fronte, dove, per lo meno, la morte non era certa).



5 commenti:

teoz ha detto...

Posso essere franco e dire la mia in modo ancora piu' diretto ? Guerra e Pace é una cagata pazzesca e Tolstoj non merita neppure di cambiare le cartucce alla stilografica di Dostoievskij !

alessandro m. ha detto...

Senza essere così drastico, devo dire anch'io che, mentre quando leggo Dostoevskij non riesco a smettere, Tolstoj lo trovo alquanto pesante. Ho letto diverse volte Delitto e castigo. Sono alle prese da mesi con Anna Karenina e non l'ho ancora finito.
Una cosa però ha di insuperabile il Tolstoj: dipinge le scene come nessuno. E' un pittore della parola.

Anonymous ha detto...

Cara Fra,la fiction faceva veramente cacare...grande delusione!

Anna ha detto...

tutto sommato, Guerra e Pace non è male, lo trovo romantico anche se esasperatamente lento. mi piace quell'attenzione al particolare che disegna il personaggio ma applicato ad un intero libro di circa 600 personaggi... -.-'

Anonymous ha detto...

Definire Guerra e pace una cacata qualifica solamente l'autore di questa stessa definizione. La scrittura va guardata il più possibile al di là delle idee: non si può essere sempre tutti d'accordo sia con Dostoevskij sia con Tolstoj. Il modo di rappresentare la realtà di quest'ultimo ha semplicemente cambiato la storia del romanzo; e se la sua fede non coincide con la mia me ne sbatto altamente. Per avere un'idea di questa scrittura plastica che ha avuto secondo me solo un paio di "parenti", cioè Flaubert e soprattutto Maupassant, rimando a un bellissimo brano di T. Mann che descrive il rapporto tra gli scrittori della Natura (Goethe e Tolstoj) e quelli dello Spirito (Schiller e Dostoevskij, appunto). Che me ne fraga se Tolstoj è classista, bigotto o altro? Mi basta vedere come guerda e costruisce il mondo con il linguaggio per capire che comunque sia il suo occhio è profondo e analitico: mi scappello. Altrimenti di questo passo rischiamo di dare della cacata anche alla Divina commedia. L'anonimo delle cacate.